di Natalino Sapegno
Sono grato agli organizzatori per avermi chiamato a presiedere una tornata di questo Convegno dedicato allò studio dell’opera di Giacomo Debenedetti. Non dirò, come d’uso, che questo invito mi onora, dirò più semplicemente che esso mi fa molto piacere, perché mi riporta alle origini di una preziosa amicizia e suscita una folla di remoti ma sempre cari ricordi. La Torino gobettiana, la Torino degli anni Venti; le riunioni settimanali nella casa sul Lungopò, dalla parte di piazza Vittorio, la casa di Giacomino che era anche la sede della redazione di “Primo tempo“. Luogo per me di memorabili incontri, che alimentarono la mia prima giovinezza: i colloqui con Debenedetti, che mi lasciavano ogni volta sbalordito per la straordinaria versatilità dei suoi interessi e la vastità delle sue letture: la conoscenza con Solini, preludio di una lunga amicizia; il primo incontro con Montale. Non credo di lasciarmi trascinare e sviare dalla nostalgia se penso che proprio quegli anni siano stati essenziali e decisivi anche per la carriera del nostro Giacomo, forse il momento più importante e luminoso di quella carriera. Certo egli avrebbe dipanato nei decenni successivi il filo di un’attività molto ricca e varia, contrassegnata da un estro vivace e inventivo, anche assai mutevole, che gli faceva trovare di volta in volta, per ogni nuova occasione, sempre nuove prospettive di lettura, nuovi schemi di indagine e provvisorie metodologie, con inesauribile capacità di assimilazione a un tempo stesso dei fatti letterari e dei movimenti di pensiero. Certo l’operosità di Debenedetti era destinata a prolungarsi nel tempo, insieme con la sua fortuna, anche oltre la morte, con la pubblicazione, che è stata per tutti una rivelazione, delle bellissime lezioni universitarie sul romanzo e sulla poesia del Novecento. Eppure persisto a credere che gli scritti di quegli anni lontani conservino un’importanza primaria, dico gli studi su Croce e su Michelstaedter e su Boine, la prima minutissima analisi della poesia di Saba, soprattutto i saggi su Proust e su Radiguet, tutti quegli scritti insomma che andranno a costituire la prima serie dei Saggi critici.
Essi hanno un timbro privilegiato: quel fuoco quella tensione quel represso entusiasmo, che è dono soltanto della giovinezza. Là c’è già tutto il critico, magari in forme più acerbe, ma in compenso con un fervore, una serietà concentrata, che egli maturando non avrebbe potuto ritrovare mai più. Quello che fa la forza di quei saggi è anche una qualità che gli deriva dal tempo e dall’ambiente, il punto di vista libero ed aperto, la prospettiva europea.
Questo spirito europeo era il segno di una cultura, quella della Torino gobettiana appunto, e in particolar modo del “Baretti“, la rivista in cui l’europeismo faceva tutt’uno con il rifiuto del provincialismo fascista, del nazionalismo culturale. Si capisce che questo atteggiamento era prima di tutto una forma di lotta politica, ma di una politica che si nutriva di cultura; e sta di fatto che nelle pagine del “Baretti” per la prima volta in Italia si cominciò a parlare con intelligenza e competenza di Proust e di Joyce, di Mann e di Rilke, e di tanti altri. Di questa apertura di orizzonti anche Debenedetti fu uno degli artefici, e probabilmente uno dei maggiori.
Dal programma apprendo che appunto a questo tema, dei rapporti di Debenedetti con i principali aspetti e i massimi rappresentanti della cultura europea, è dedicata questa giornata del Convegno. È tempo dunque di porre fine a questa mia introduzione e di dare la parola al primo relatore.