di Giuliano Manacorda
Alla tragedia della comunità ebraica romana, culminata nella spietata caccia all’uomo all’alba del 16 ottobre 1943, Giacomo Debenedetti ha dedicato due opuscoli, se vogliamo usare l’espressione (tuttavia virgolettata) di Ottavio Cecchi, che è in ogni caso insufficiente soprattutto per quanto riguarda 16 ottobre 1943 cui meglio si addice l’intitolazione di “saggio-racconto” secondo la definizione di Giansiro Ferrata. (1) Si tratta comunque di due scritti, 16 ottobre 1943, appunto, e Otto ebrei non ampi ma nelle cui pagine « bellissime per vigore e rievocazione e lucidità di giudizio » , come le definì Natalino Sapegno, (2) si rivela al più alto livello « la fine e scontrosa severità morale » dell’autore. Debenedetti li compose nel settembre e nel novembre del 1944, cioè ad appena un anno da quei drammatici eventi cui lui stesso sfuggì solo perché, come ci dice, « passò la mattinata del 16 ottobre in casa di una vicina » (prima di trovare rifugio a Cortona dove visse accanto a Pietro Pancrazi e Nino Valeri e dove scrisse il saggio Vocazione di Vittorio Alfieri). L’uno e l’altro scritto, sia pure tra loro – come vedremo – nettamente differenziati per impostazione e svolgimento, recano chiari i segni ancora recenti dell’emozione e dello sdegno, ma insieme la volontà non certo di razionalizzare la barbarica offesa recata a un popolo innocente (« Torto nostro a voler cercare una regola nel più spaventoso degli arbitrii » è scritto), ma soltanto di spietatamente raccontarla con una « cronaca al tempo stesso commossa ed esatta », secondo le parole di Moravia. (3)
Otto ebrei uscì a Roma nel 1944 nelle edizioni “Atlantica” con prefazione di Carlo Sforza; ristampato nel ’61 nella “Biblioteca delle Silerchie” del Saggiatore insieme con la Lettera a Hitler di Louis Golding (poi ancora insieme nel IV volume delle Opere di Debenedetti nelle edizioni del Saggiatore del 1973) fu unito a 16 ottobre 1943 nel volume degli Editori Riuniti del 1978 curato da Ottavio Cecchi e prefato da Alberto Moravia, un volume che ha avuto recentemente (1984) anche un’edizione scolastica sempre a cura di Cecchi. 16 ottobre 1943 uscì dapprima nella rivista romana “Mercurio” nel numero novembre-dicembre 1944, venne ristampato l’anno successivo a Lugano in “Libera Stampa” e nel volume delle edizioni romane O.E.T., nel ’47 uscì in traduzione francese in “Temps modernes”, nel ’55 ancora in rivista (“Galleria”), infine nelle “Silerchie” del Saggiatore prima di trovare collocazione, come si è appena visto, insieme con Otto ebrei.
Per comodità espositiva, il nostro discorso comincerà con 16 ottobre 1943, un saggio-racconto come si è detto, in cui l’aspetto saggistico è dato dall’intervento di testimoni diretti di un particolare evento e dunque dal valore storiografico di quelle pagine. Un valore che non è sfuggito a uno storico come Renzo De Felice il quale nella sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (Einaudi, Torino, 1961, pag. 525) cita lo scritto debenedettiano definendolo « un vivissimo e drammatico libretto ». In questo senso, l’opera di Debenedetti si aggiunge ad altre analoghe di sapore testimoniale a cominciare da Caccia all’uomo! di L. Morpurgo, uscito a Roma nel 1946, che riproduceva la Relazione del Presidente della Comunità Israelitica di Roma Ugo Foà, circa le misure razziali adottate in Roma dopo l’8 settembre 1943 (data dell’armistizio Badoglio) a diretta opera delle autorità tedesche di occupazione. Debenedetti scrive e pubblica addirittura in anticipo su questi scritti di natura quasi ufficiale portando un suo personalissimo contributo di informazione e di giudizio.
Partiamo dunque dal valore storiografico del saggio. Debenedetti lo inizia introducendo sin dalla prima pagina la figura del testimone diretto, « una donna vestita di nero, scarmigliata, sciatta, fradicia di pioggia », che dà il primo terribile annuncio: il comando tedesco ha in mano « una lista di duecento capifamiglia ebrei da portar via con tutte le famiglie ». Ma subito dopo Debenedetti mette in bocca all’anonima teste le parole pronunciate in quella concitata circostanza: « Credetemi! scappate, vi dico! – Vi giuro che è la verità! Sulla testa dei miei figli! – Ve ne pentirete! Se fossi una signora mi credereste ». È un procedimento di scrittura che l’autore continuerà ad utilizzare per gran parte dello scritto, in cui, a parte l’accenno classista: i signori sono creduti, i poveri no – non si può non notare l’aspetto di “racconto”. Ma va subito aggiunto che in nessun caso questa che potremmo chiamare un’invasione della narrativa nella saggistica sembra minacciare la verità di fatto, che resta intatta e se mai appena un poco colorita (si veda quell’espressione così romana e così ebrea: « sulla testa dei miei figli » ).
L’andamento di racconto e I’andarnento di saggio continuano ad alternarsi e a fondersi perché tutto il saggio è basato sulle testimonianze vive, sulle parole raccolte dalla bocca dei protagonisti nella loro pronuncia autentica, che poco conta siano state quelle esattamente o soltanto presumibilmente dette, in quella mattinata. Questi protagonisti sono tutti anonimi o al massimo indicati con qualche nomignolo, poiché è evidente che poco o nulla conta che, ad esempio, a gridare l’allarme sia stata proprio Letizia l’Occhialuta o un’altra persona qualsiasi. Come ha scritto ancora Moravia: (4) « Il razzismo è un’ideologia di massa; e le sue vittime… sono anch’esse massa » ; una massa che trova voce – grido, lamento o preghiera in uno qualunque che parla, grida o bisbiglia per tutti. E non è certo un caso che l’unico ad avere un nome in questo libro sia un ariano, il macchinista Quirino Zazza che condusse il treno dei deportati da Roma a Firenze.
Ma fra i testimoni c’è una voce che emerge, quella che ha raccontato di più e suIla quale Debenedetti s’è più a lungo soffermato, la signora Laurina S., dalla quale si viene a conoscere tutta la crudeltà dell’operazione – le percosse coi calci dei fucili, i bambini strappati alle braccia delle madri, i paralitici scaraventati sui camion – ma anche una certa dose di ottusità che servì, per lo meno a lei personalmente, ad uscire indenne da quella tregenda.
Debenedetti la descrive con la fedeltà del cronista, che non è freddezza ma convinzione che la forza dei fatti sia più potente delle parole che tentano di descriverli; eppure il letterato finissimo, l’intellettuale carico di immagini dedotte dalla sua cultura non può cessare di essere se stesso, la sua verità è proprio quella che usa i modelli che gli hanno plasmato la personalità. È quanto ha intuito perfettamente ancora Moravia, che dopo aver affermato che « nessuno era meno adatto di Debenedetti a descrivere la sorte degli ebrei romani », riconosce il totale recupero di quella funzione di cronista proprio grazie alla letteratura, grazie perfino all’impiego di modelli classici e alla stessa « patina stilistica leggermente estetizzante » – sono ancora parole di Moravia – là dove, come nell’arte funeraria « l’estetismo vuol dire pietà »; e perciò cessa di essere “letteratura” in quel senso deteriore che il termine può acquistare, perché il dolore riporta la vittoria sulla letteratura.
È pur vero che talora le righe di Debenedetti richiamano modelli antichi; si veda questa autentica fuga da Troia: « Le madri, o talvolta i padri, portano in braccio i piccini, conducono per mano i più grandicelli. I ragazzi cercano negli occhi dei genitori una rassicurazione, un conforto che questi non possono più dare ». O si veda la quasi ricercata violenza di certe espressioni: « I nazisti amano la regia, la teatralità, la solennità nibelungica atra e terrificante ». O l’immagine efficacissima ma di evidente origine intellettualistica con cui viene descritto il paleologo che trafuga i libri dalla biblioteca del Collegio Rabbinico: « Tutto divisa, anche lui, dalla testa ai piedi: quella divisa attillata, di un’eleganza schizzinosa, astratta e implacabile, che inguaina la persona, il fisico ma anche soprattutto il morale, con un ermetismo da chiusura-lampo. È la parola verboten tradotta in uniforme »; e poi: « Un colpo secco della chiusura-lampo, e la divisa ha rinserrato il semitologo, che è ridiventato un ufficiale delle SS ».
Ma non crediamo sia il caso di sottolineare più del dovuto esempi del genere che risultano ben riassorbiti nella totalità del testo. Lo stesso accade per la narrazione dell’imposizione alla comunità di consegnare cinquanta chili d’oro, costruita secondo l’astuzia certamente letteraria del flash back successivo alle pagine iniziali in cui la situazione veniva descritta nella forma più immediata. Ma poi quella soluzione si rivela niente affatto carica di opportunismo stilistico, ma quale strumento pratico di informazione che completa il quadro del 16 ottobre raddoppiando la bestiale responsabilità dei nazisti, e magari anche la colpevole ingenuità degli ebrei.
In questo suo doppio registro di saggio e di racconto, Debenedetti – in conclusione – ha voluto soprattutto darci il referto fedele – perché l’uomo non dimentichi! – di un avvenimento straordinario e straordinariamente crudele. Questo non gli ha impedito, naturalmente, di soffermarsi con alcune considerazioni o digressioni su aspetti più generali; come la credulità disastrosamente ingenua dei suoi correligionari, il loro disperato bisogno di simpatia umana, il loro atteggiamento nei confronti dell’Autorità della quale non si deve mai diffidare, l’idea-madre del giudaismo che è quella di giustizia; e ancora: la stanchezza dell’ebreo errante, la rassegnazione che prevale sulla sofferenza, l’incredibile speranza che non si arresta nemmeno davanti alla verità più orribile: « Loro continuavano a pensare a un dopo nella vita di prima, con le abitudini di prima ». Ma, ripetiamo, l’intento e l’esito di 16 ottobre 1943 è eminentemente descrittivo. Tutt’altre, invece, le intenzioni e i risultati di Otto ebrei.
Sono appena una ventina di pagine che nascono come risposta immediata, uno sfogo, un risentimento ma anche una messa a fuoco di un problema fondamentale, ad occasione di un episodio particolare. II commissario di Pubblica Sicurezza Raffaele Alianello (ancora un ariano con nome e cognome) racconta che il 24 marzo 1944 fece cancellare otto ebrei dalle liste di coloro che sarebbero stati trucidati alle Fosse Ardeatine. Debenedetti si ribella a questo pietismo sospetto fino a nascondere il contrario di quella che sembra essere la nobiltà del gesto, e per due ragioni: una contingente, l’altra generale. La prima è la tattica bassamente machiavellica di chi spera di accaparrarsi in quel modo meriti presso i nuovi poteri ormai immancabilmente in procinto di sostituire il fascismo: « I fascisti – scrive Debenedetti – quando comandavano loro, deploravano: peggio, punivano il pietismo verso gli ebrei. Mostriamo di essere stati pietisti, di avere avuto questo coraggio, e risulteremo senz’altro iscritti, iscritti d’ufficio, senz’ombra di contestazione, nei ranghi dell’antifascismo ». Si ribella a questo « metodo dell’ambiguità canagliesca, del contegno bifido e furbastro, del fine-giustifica-i-mezzi », perché il comportamento dello “sbirro” è un “sintomo” di una condizione generale, ci dice che « la campagna razziale non è finita. La persecuzione continua ».
Può sembrare un’affermazione paradossale e ingiusta, ma Debenedetti la suffraga con il suo stringente ragionamento, che parte col domandarsi quale sia la colpa degli ebrei se non “il delitto di essere nati” e prosegue con la descrizione terrificante delle morti nelle camere a gas, ma torna presto al discorso o alla questione iniziale:
Questo [...] di creare eccezioni a vantaggio degli ebrei non è un modo di riparare dei torti. Riparazione – scrive sempre Debenedetti – sarebbe rimettere gli ebrei in mezzo alla vita degli altri, nel circolo delle sorti umane, e non già appartarneli sia pure per motivi benigni. Questa è un’antipersecuzione: dunque, fatta della medesima sostanza psicologica e morale della persecuzione.
E ancora:
Oggi al vedere la situazione non già corretta, ma semplicemente capovolta con sì perfetta simmetria di antitesi, può nascere il dubbio che negli ebrei si perdoni l’ebreo.
È ineccepibile – ci sembra – la pretesa degli ebrei di essere uomini fra gli uomini, uomini come gli altri, senza riconoscimenti di speciali diritti o speciali ricompense – « Speciali, cioè razziali », dice Debenedetti – nemmeno a titolo di risarcimento o di riparazione dei danni: uomini e basta, che non vogliono e non debbono essere amati gratuitamente, e cioè amati male e cioè non più costretti a meritarsi l’amore.
Sul piano di una logica lucida e persino implacabile, che può arrivare a comprendere « anche la libertà di essere antisemiti », ma di un « antisemitismo di uomini liberi… cui sia dato opporre validi argomenti », il discorso di Debenedetti ci appare assolutamente rigoroso e tutto da condividere. Ma la vita – si sa – non sempre segue la logica e lo stesso Debenedetti ce lo insegna e lo abbiamo visto: non c’è regola nell’arbitrio. Nel settembre aveva dimostrato l’ipocrisia di fondo e la falsa umanità che poteva esserci nell’ « ordine di servizio: mostrare simpatia agli ebrei » e aveva teorizzato il rifiuto del gesto pietoso nei confronti degli ebrei – e non parliamo del gesto particolare del commissario Alianello, parliamo del suo valore di “sintomo” di un rapporto generale – ma due mesi dopo, in novembre, egli cessa di teorizzare, si tuffa nell’orrore dell’esperienza vissuta, ed ecco che la sua rigida consequenzialità può andare in frantumi.
C’è un passo del 16 ottobre 1943 in cui si racconta del gesto di alcun cittadini romani in aiuto degli ebrei angariati dalla richiesta tedesca di cinquanta chili d’oro; Debenedetti non solo non rifiuta il gesto discreto e pieno di pudore di quegli uomini ma li descrive con grande simpatia e riconoscenza. Ecco le sue parole:
Ormai tutta Roma aveva saputo del sopruso tedesco, e se ne era commossa. Guardinghi, come temendo un rifiuto, come intimiditi a venire a offrire dell’oro ai ricchi ebrei, alcuni “ariani” si presentarono. Entravano impacciati in quel locale adiacente alla Sinagoga, non sapendo se dovessero togliersi il cappello o tenere il capo coperto, come notoriamente vuole l’uso rituale degli ebrei. Quasi umilmente domandavano se potevano anche loro [...] se sarebbe stato gradito [...] Purtroppo non lasciarono i nomi, che si vorrebbero ricordare per i momenti di sfiducia nei propri simili.
Dunque, esiste una partecipazione attiva che non è mero capovolgimento simmetrico della persecuzione e fatta della sua medesima sostanza e perciò sua continuatrice? E se esiste, che cos’è che la distingue e la caratterizza rendendola non solo accettabile ma laudabile, da portare non quasi ad esecrazione come il gesto di Alianello, ma ad esempio? E continuiamo a dire che non si tratta delle mosse dei piccoli machiavelli di cui si è detto sopra (ma, al limite, non possiamo immaginare che anche questi generosi offerenti pensassero a una moneta di scambio per il futuro? ), ma degli uomini – anch’essi uomini fra gli uomini – nei cui gesti era compresa, voleva essere compresa anche la riparazione. II discrimine fra partecipazione cattiva e partecipazione buona, tra partecipazione interessata e disinteressata è forse quello tra pietà e pietismo? Ma non sarà solo questione di parole? e a quale punto mai sarà lecito tracciare la demarcazione? Certo Debenedetti non lo sa, o comunque non ce lo dice; ma qualcosa di molto importante forse finisce per dircela: che tra il ragionare se non in termini astratti per lo meno in termini generali e definitori, e il prender parte di persona ai drammi della storia e della vita scatta un di più di conoscenza, che non è negazione della ragione, anzi può concorrere a integrarla, a ulteriormente umanizzarla, a concederle quelle provvidenziali e doverose eccezioni che la rigida applicazione del rapporto logico non sempre è in grado di giustificare.
Riteniamo infine che sia giusto domandarsi come possano essere accolti oggi i due scritti debenedettiani a circa mezzo secolo di distanza e quando molti avvenimenti hanno radicalmente modificato non solo la condizione politica del popolo di Israele ma, per molti aspetti, la psicologia del comportamento dei suoi figli. Alludiamo naturalmente in primissimo luogo alla fondazione dello Stato di Israele e ai problemi e ai conflitti che esso ha creato e vissuto in questi suoi primi decenni di vita. Nell’Introduzione all’edizione romana del ‘78, Ottavio Cecchi aveva particolarmente insistito sulla “verità nomade” dell’ebreo; commentando una frase di Blanchot, Cecchi scriveva che « il significato positivo dell’ebraismo… » sta « dovunque ci sia un passaggio da compiere; che è come dire: dovunque ci sia da sperimentare il passaggio e l’estraneità » ; questo « stato intermedio » può creare o ha creato « un abisso invalicabile » che solo la parola può attraversare. Costantemente mantenuto « nel ghetto della diversità o nel ghetto della simpatia », cioè nella condizione di perseguitato per odio o perseguitato per amore come è denunciato in Otto ebrei, il sionismo lo ha sottratto o sradicato da questa condizione sognando e poi realizzando Israele, cioè lo stato anziché il nomadismo, la riva anziché il passaggio fra due rive.
La condizione del popolo di Israele, e non solo di quello lì residente, ma anche quello della diaspora, si è totalmente e forse definitivamente mutata, gli ebrei non sono più quelli che per secoli i popoli dell’Occidente si erano abituati a ritenere, non sono più quelli di cui parlava Debenedetti scrivendo nell’autunno del ’44, oggi che la posizione del “passaggio” è diventato il dramma piuttosto del popolo di Ismaele, o almeno di una sua frazione. E allora l’insegnamento che possiamo trarre dalle sue pagine rimane ma, fermo restando il valore della testimonianza, appare diverso.
Una citazione ancora da Maurice Blanchot sulla scorta di André Neher dice: « L’ideologia sionista ha risposto con una soluzione tipicamente occidentale, quella dello stato, ad una situazione tipicamente orientale » (e forse trascendente ogni significato storico determinato) « come se tutta la tendenza espressa dall’ebraismo dovesse mirare unicamente alla fondazione di uno stato concepito sul modello dello stato ottocentesco ». In altri termini, chiosa Cecchi, « la fondazione di uno stato non è risultata adeguata né alla storia né alla condizione ebraica ».
Può darsi; è stata però certamente adeguata a porre gli ebrei sul piano di un’assoluta parità rispetto a tutte le altre comunità umane, con tutto ciò che questo comporta di positivo e di negativo. E se il negativo era anche, o soprattutto, l’eterna condizione di perseguitato o per odio o per amore, la posizione attuale è assolutamente positiva per aver definitivamente posto termine a quella condizione o orrenda o assurda. Ma per questo l’ebreo deve pagare un prezzo che è anche una conquista. Debenedetti auspicava, sia pure come concetto limite, l’avvento di un « antisemitismo liberale »; ebbene, la nascita di uno Stato di Israele con tutti i crismi di un qualsiasi Stato dell’intero globo comporta la realizzazione di quell’ “auspicio”. Il quale deve comportare come primo carattere la non confusione fra antiisraelismo e antisemitismo; o – che è lo stesso – la legittimità della critica, anche violenta, alla politica di uno Stato o di una classe dirigente, e invece la illegittimità etica della prosecuzione dello spirito discriminatorio e persecutorio contro un popolo: anche o ancor più perché questo può accadere nei confronti delle medesime persone fisiche.
In altri termini, e per concludere, il peggiore fraintendimento del messaggio di Debenedetti sarebbe quello di giudicare l’ebreo di oggi con l’occhio con cui egli guardava all’ebreo di ieri, quasi l’ebreo non fosse mutato, quasi non fosse mutato il nostro rapporto con lui. Debenedetti ci invita a rivendicare il diritto per l’ebreo ad essere criticato, ad essere coinvolto in un dibattito che lo riguarda in cui sia lui stesso uno dei protagonisti, uno dei soggetti e non solo oggetto e in cui – citiamo ancora Otto ebrei – esso possa difendersi; e, insieme, per l’ “ariano” (questa orrenda o assurda parola che, come Debenedetti, poniamo tra virgolette) l’analogo diritto a discutere, a dibattere e conseguentemente ad approvare o condannare quello che l’ebreo fa nei nostri anni, senza sentirsi paralizzato, o addirittura ricattato, dalla memoria secolare dei ghetti o da quella recente di Auschwitz. Sarebbe la peggiore offesa per gli ebrei, la loro conferma nel ghetto della persecuzione per amore, della discriminazione.
Il discorso ci ha portato molto lontano dalle nude note editoriali da cui eravamo partiti; ma la validità di un’opera non si misura anche dal suo saper giungere al lettore pur dopo molti anni o decenni, e dalla capacità del suo messaggio di provocare sempre nuove e differenti reazioni?
NOTE
1. In Giacomo Debenedetti, a cura di C. Garboli, Milano, Il Saggiatore, 1968, pag. 131.
2. Ibid., pag. 101.
3. Prefazione a G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, Otto ebrei, Roma, Editori Riuniti, 1978, pag. 25.
4. Ibid., pag. 27.