Il fazzoletto di Debenedetti

di Franco Cordelli

Un’affermazione e una domanda nello stesso tempo: perché Giacomo Debenedetti è (e resterà) il più grande critico italiano di questo secolo? Porsi un problema a questo livello non sembrerebbe lecito: troppo perentorio, troppo semplice. Eppure la flagranza della risposta è tale che bisognerà rispondere e passar oltre. Il Novecento, per la letteratura italiana e per l’Italia, primo tra i paesi del terzo mondo che si affacciano oggi sulla scena della cultura planetaria, è il secolo del romanzo. E quale è stato il critico del romanzo, il suo analista, il suo diretto o implicito apologeta, se non l’autore del testo in questo senso più ambizioso, Il romanzo del Novecento? Passare già oltre significherà: essendo in questione il magistero di Debenedetti, che cosa si possa ancora chiamare romanzo, e se e come ad essa forma sia possibile proclamare fedeltà. Gérard Genette nel suo Nuovo discorso del racconto dice che « gli studi letterari oggi oscillano tra il filatelismo della critica interpretativa e il meccanismo della narratologia », che tuttavia « si distingue per il rispetto dei meccanismi del testo » (ma già da tempo è insorta una critica, per esempio Hans Robert Jauss, che discute questo stesso “rispetto”: non è fideistico? perché “il testo innanzitutto”? L’intertestualità o addirittura la contestualità, il lettore, non sono fattori altrettanto se non più decisivi?).

George Steiner, sentendosi precipitare nel vuoto, torna addirittura al buon senso: la tradizione, l’interesse che certi testi continuano a suscitare a discapito di altri. E accorgendosi che non essendo questa la risposta buona, se non a prezzo di una rinuncia all’atteggiamento valutativo (la pura e semplice interpretazione elude uno degli aspetti fondamentali della critica letteraria e si condanna fatalmente al culto del passato, alla sterilità), accorgendosi di questo grave rischio, parla semplicemente di una “presenza reale”, ovviamente trascendente, o come se, all’interno di un testo di poesia, di un romanzo, di un dramma.

Questa l’unica risposta possibile: dalla filatelia alla mistica. Proprio là dove sfocia la posizione di un critico come Stefano Agosti, partito da presupposti ben diversi da quelli che hanno nutrito la critica di Debenedetti, o dello stesso Steiner. Agosti arriva alla mistica partendo non dalla filatelia ma dalla “scienza”. In Modelli psicoanalitica e teoria del testo, attraverso lo schema del suo precedente formalismo, analisi del testo e Lacan, Agosti guarda con un nuovo cannocchiale, quello fornito da Ignacio Matte Blanco: l’inconscio non è né topico né dinamico. Esso non è che una struttura regolata da una logica che dobbiamo definire simmetrica (in opposizione a quella aristotelica, o a-simmetrica, per cui A si oppone a B, mentre nella logica dell’inconscio di Matte Blanco A e B possono essere o sono decisamente la stessa cosa).

La logica simmetrica, come Agosti dimostra analizzando alcuni testi per esempio di uno dei più grandi nemici del romanzo, di Paul Valéry, è naturalmente la logica della poesia, il luogo nel quale tutto tende all’identico, al Medesimo: sia stilisticamente sia strutturalmente. È a questo punto, allora, che ci soccorre un romanziere, Hermann Broch, che è stato anche uno dei grandi teorici del romanzo moderno. In particolare il suo racconto “Il convitato di pietra”, contenuto nel romanzo Gli incolpevoli. In questo racconto, il protagonista, che non è precisamente un Don Giovanni, finisce tuttavia all’inferno per aver rifiutato la sua responsabilità, l’accesso al Simbolico (direbbe lo stesso Agosti) – ovvero al regno della storia e delle differenze, nel quale dopotutto viviamo – o l’emancipazione dal regno delle Madri, come si esprime Broch, così indicando, con questa metafora, o con questo mito, ciò che Matte Blanco chiama “la logica simmetrica”. Inutile addentrarsi ora nella potenza e nel senso di una metafora come questa. Certo, ad essa non si sfugge – e possiamo qui limitarci a indicare che se il regno delle Madri è un termine ad quem, ovviamente vertiginoso e terribile, può essere anche un punto di partenza, anzi l’unico: la madre come generatrice di tutte le forme e, appunto, le differenze, i conflitti, le traiettorie del ritorno. “Cristo è Dio” è una metafora, un arbitrio semantico, un atto di fede e alla fine di poesia. Niente altro che questo. Pure, si tratta di uno dei più potenti “atti generativi” della storia umana. È solo dopo che sono venute le Chiese.

Ma quello che a noi ora interessa è non solo osservare come la poesia, anche quando tenda con ogni evidenza al Medesimo, sia ben lontana dal rumore ma almeno altrettanto dalla musica (il caos e l’armonia delle sfere sono in uguale misura l’opposto della poesia, che è una emancipazione dal primo e un riflesso o un’utopia della seconda – poiché ove fosse pura armonia essa stessa altro non sarebbe che una compiuta tirannia, ovviamente del senso, ormai otturato). Quello che ci interessa è la seconda osservazione, più a ridosso del lavoro di Agosti, e che sarà forse valida, argomentativamente, riguardo al destino della critica formalista in genere. Curiosamente, Debenedetti approdando alla psicoanalisi scrisse Il romanzo del Novecento; Agosti, partendone, non può sottrarsi, anzi non si sottrae, al destino da lui prefigurato, quello dell’identico. I poeti che egli sceglie per le sue analisi sono quelli predisposti al “ritorno” dell’ipotesi iniziale, cioè quelli che ad Agosti più somigliano. Si vorrebbe vedere Agosti alle prese con Hugh Selwyn Mauberley di Ezra Pound per esempio, o con qualunque poesia che postuli la possibilità narrativa, o semplicemente discorsiva.

Non sarà allora una questione di scelte aprioristiche, di arbitrio? Di questo passo potremmo arrivare fino al postulato del contenuto, e perfino a quello del gusto. Ma ciò che più ci urge e inquieta, in questo contesto di discorso, è che tali scelte addirittura fisiologicamente somigliando a colui che le effettua, si sottraggono implicitamente là dove tutto il resto è esplicito, a ciò che più conta, vale a dire all’atto valutativo (che dal punto di vista della critica è l’atto prospettico), né più né meno di quanto ad esso si sottraeva la risposta smarrita di Steiner, e della critica accademica in genere.

Osservava Blanchot: « Broch vede, nel puro razionale, altrettanti pericoli che nell’impuro irrazionale. Entrambi mancano di stile. La natura da una parte, la matematica dall’altra, ci espongono all’esigenza vuota dell’infinito ». Ovvero: nel regno delle Madri non esiste il diverso da sé e, venendo meno il conflitto, della critica, cioè (sarà infine opportuno ammetterlo) del romanzo, decade addirittura il presupposto di ciò che la rende necessaria.

Per oppormi al dominio dell’identico, dell’uno, ho stabilito una identità. Ma essa, quella tra critica e romanzo, è solo apparentemente violenta. Non necessariamente le Madri sono, come ho detto, un termine ad quem. Se consideriamo tutt’altro tipo di lettore, o di interprete, il rumeno Cioran – forse il più vigoroso odiatore del romanzo in quanto emblema dell’arte moderna – nella sua opera le Madri appaiono il presupposto, la fatalità, il tema e, infine, o di nuovo, il traguardo – benché ormai mancato. Per Cioran si può ipotizzare una polarità tra la poesia (innominata), in quanto pienezza di ciò che fu, e il romanzo (detto a ogni pagina come può essere nominato niente altro che il male). Per Cioran le Madri sono « le nostre realtà primordiali » e il romanzo ciò che si frappone tra esse e « le nostre finzioni psicologiche ». In altri termini, il regime stesso dell’inautentico.

« Tutte le mie velleità metafisiche – dice Cioran – venivano a cozzare con la mia frivolezza. A torto o a ragione ho finito per renderne responsabile tutto un genere, per avvolgerlo nella mia rabbia, per vedervi un ostacolo a me stesso, l’agente della mia disgregazione e di quella degli altri, una manovra del Tempo per infiltrarsi nella nostra sostanza, la prova finalmente acquisita che l’eternità per noi non sarà mai altro che una parola e un rimpianto. “Come tutti, sei figlio del romanzo”, questo è il mio ritornello e la mia sconfitta. »

Ebbene: come dargli torto? come negare a Cioran le sue ragioni? Non siamo noi tutti « figli del romanzo » ? e non è il romanzo ciò che tutta una stirpe ci dimostra che esso è: un distoglimento, la più potente o l’ultima delle illusioni, quella che allontanandoci dalle Madri ci accosta al puro disincanto, alla pura critica?

« Nessun talento epico – aggiunge Cioran – senza una scienza della banalità, senza l’istinto dell’inessenziale, dell’accessorio, dell’infimo. » Di fronte all’acqua ci si può fermare, si può scegliere tra guardare e immergersi, come diceva Thibaudet a proposito dei narratori di racconti brevi. Ma di fronte alla schiuma, come non sentirsi travolti, come non soggiacere al puro rimpianto? Esplicitamente, il bersaglio di Cioran non è più, alla fine, il romanziere (in quanto, poniamo, scrittore moderno, o in quanto antitesi del mistico o del poeta), ma il critico stesso: « II fenomeno moderno per eccellenza è costituito dalla comparsa dell’artista intelligente »; oppure: « È l’individuo che fa l’arte, non è più l’arte che fa l’individuo, come non è più l’opera che conta ma il commento che la precede o la segue. E la cosa migliore che un artista produce sono le sue idee su quello che avrebbe potuto compiere. È diventato il critico di se stesso, come l’uomo qualunque lo psicologo di se stesso ».

Ancora una volta, Cioran ha ragione. Ma contemporaneamente percepiamo la linea d’ombra che attraversa la sua critica. Certo: « Il lato volgare, il lato parvenu del romanzo fissa i suoi tratti: avvilimento della fatalità, Destino che ha perso la sua maiuscola, improbabilità della sventura, tragedia declassata ». Ma anche: perché non pensare che non siamo figli separatamente dell’uno, il Romanzo, o delle altre, le Madri bensì figli di tutti e due insieme? Come sottrarci all’unica, vera fatalità che ci compete, provenienti o destinati all’eterno, d’essere di fatto e innanzitutto immersi nel tempo? II nostro Destino, il destino con la maiuscola, non sarà, allora, quello d’afferrare il toro per le corna, affrontare il tempo a viso aperto – nella sua stessa degradazione, e ampliare, addirittura, la “scienza della banalità” o, se si preferisce, non rifiutarsi alla prospettiva del divenire critici di noi stessi – pena, a piacer vostro, la nostalgia del Pastore, eroico o meno; l’arcadia del Nulla; ovvero lo sbocco immediato e meglio visibile: il puro mercato, il romanzo come mero prodotto proprio in quanto immerso, senza più difese critiche, nel divenire che chiamiamo Storia?

Non sarà, il nostro punto di vista, drasticamente diacronico, altrimenti dovremmo studiare il romanzo come un organismo con leggi sue “copernicane”. Viceversa, esaurite, o fallite, le risposte (ideologiche del romanzo novecentesco – come voleva Debenedetti – alla domanda (“spontanea”) di quello classico non reagiremo con l’ipotesi di un ricominciamento – che per noi sarebbe equivalente alla minimizzazione del nazismo in nome della presunta identità tra stalinismo e comunismo ormai unanimemente identificato con il vero male del secolo. All’inizio della storia del romanzo già convivevano Fielding e Sterne, Defoe e Diderot. « La nostra partecipazione alla narrativa e al teatro – abbreviamo con una parola inesatta: all’epica moderna – è di tutt’altra specie. Questa epica ha una sua speciale facoltà di comprometterci. »

Credo che in questa breve proposizione di Giacomo Debenedetti (che risale al 1947) – anzi nella frase finale della proposizione, quella che riguarda la « speciale facoltà di comprometterci », sia contenuta, o implicita, la vera risposta – ai modi di procedere sia di Cioran sia di Agosti o chi per loro – e di buona parte delle linee di fuga che osserviamo nella critica contemporanea – per non dire nella pratica stessa, nella produzione di romanzi sterminati o micro, e perfino di poesie – produzione che ha fatto tesoro del fraintendimento capitale della critica come negatività pura, come, invero, ineludibile, ghignante e sinistro accampamento dell’Io.

Ancora oggi ricordo con nitidezza l’impressione che mi fece l’anno dopo la morte di Debenedetti, in uno dei mille dibattiti di quell’epoca che ne era contrassegnata come da uno stile di vita, ancora oggi ricordo l’impeto con cui un allora studente e oggi esimio professore della Facoltà di Lettere di Roma decretò, citando Walter Benjamin, la fine dell’artista creatore e la nascita dell’artista come produttore.

Era, si capisce, una salutare presa di posizione anti-idealistica: ma oggi possiamo vedere come quell’impeto si sia trasformato in un tripudio, e in un trionfo – non di un’idea ma di un modo d’essere. È qualcos’altro oggi il romanzo se non la colonia ultima di tutti i parvenus (per usare il termine di Cioran) di quella obnubilata generazione e dei suoi tristi figli? Chi non scrive romanzi, oggi? Quale storico dell’arte, commessa, filosofo, giornalista? Si sarebbe tentati più che mai di scivolare nelle crocifisse braccia di Cioran se non ci si sovvenisse che ciò che alimenta il morbo è proprio l’assottigliarsi della soglia critica – da Cioran, la soglia critica, indicata come soglia dell’inferno.

Al contrario, quando Debenedetti semplicemente scrive: « Un divorzio si è consumato tra il protagonista e ciò che gli succede. Si è rotto il rapporto di pertinenza, di legalità tra personaggio e vicenda. Come dire: tra l’uomo e il suo destino », noi, a quella parola, destino, scritta così com’è, con la sua minuscola, ci atteniamo fedelmente. Perché evaderne? perché sospirare? Allora, come oggi, ancor più, “le ragioni del mondo” non coincidevano, e non coincidono, con le “ragioni della mente” – ciò che « sanciva l’architettura del romanzo o del dramma: e così pure con le ragioni del cuore che nei motivi della vita ritrovava conferma insieme e pascolo amaro o struggente o dilettoso ai propri moti. Postulato fondamentale di quell’epica della realtà: la vita sa quello che vuole, sa come arrivarci per le vie del male e per quelle del bene, e questa sua volontà è del tutto conveniente con quello che vogliamo che la vita voglia » .

Ma se la vita non sa più ciò che vuole? o se noi stessi non vogliamo e la vita non vuole? Per questo dobbiamo abbandonare la soglia? La lezione di Debenedetti, e la ragione per cui la sua opera si attesta al centro del pensiero letterario del Novecento italiano, non è forse la sua non dirò difesa, ma addirittura invenzione di un contro-destino, che equivale a un destino di fatto, quello d’aver posto risolutamente il romanzo, benché nella sua irreversibile crisi, nel cuore dei suoi studenti, lettori e seguaci di oggi? Il romanzo, dico, precisamente come azzardo, cioè come fede, cioè valutazione, o come cognizione della soglia – e la soglia in quanto cognizione di sé, esile tra romanzo e critica del romanzo, bistrattata tra richiamo degli dei e banalità, inessenzialità, infinità?

In un altro passo del saggio fondamentale cui mi riferisco, Personaggi e destino, Debenedetti ricorda un episodio famoso non d’un romanzo di quelli che Cioran o Agosti potrebbero odiare, e Steiner e Genette magari a ragione temere, ma dell’Odissea. È l’episodio della discesa agli inferi compiuta da Ulisse. « [...] da allora in poi - dice Debenedetti - ogni vero romanzo, ogni romanzo risvolto a fondo, ha contenuto una sua Nekuia. Con una certa dose di spavalderia, si potrebbe perfino tentare una storia dell’epica, a seconda della forma o dell’ubicazione di quegli inferni. »

Ebbene: non lo si potrà certo accusare di cecità, o di escapismo! Debenedetti parla di “inferi”. E sa che per non perdere « il più giusto impulso per cui un uomo si mette a inventare storie di uomini e le racconta ad altri uomini », per comunicare cioè « quelle illuminazioni sul destino, che sole fanno catarsi nei miti, nei romanzi e nei drammi » la sequenza, tra mito e romanzo, non può davvero essere interrotta, né dopotutto lo è mai definitivamente. Alla fine c’è, come sempre, la coincidenza paradossale, il nostro irresistibile “desiderio mimetico” (per citare un altro critico venerabile, René Girard): la Nekuia, cioè, in termini moderni, l’interruzione della vita, l’interruzione del racconto, vale a dire la critica, è, ripeto, fatale; ed essa è immersione nel mondo mitico, nel magma delle Madri, ovvero là dove il mondo delle Madri già chiede luce, chiede romanzo; o, all’inverso, immersione nel mondo del romanzo, cioè nel suo tempo, nella sua banalità – perché attraverso essa immersione (la critica, ancora una volta) si produca catarsi – e di nuovo il mondo delle Madri, se è di ciò che abbiamo bisogno, di un destino con la maiuscola.

Non sono certo che il bisogno sia questo. È la ragione della mia prudenza in genere. Ho un ricordo visivo, quasi plastico, di Debenedetti come maestro, come “critico in cattedra” (benché senza cattedra, per sua elezione, destino e, forse, fortuna). Aveva sempre un fazzoletto tra le mani. Lo stringeva, lo apriva e appallottolava – battendosi per e contro il romanzo, imprigionandomi, a mia insaputa, in una devozione e in una repulsione, o quanto meno in un sospetto, per il romanzo, di cui non ero in grado di percepire la portata (per il mio personale destino).

Non so, quel fazzoletto, cosa per lui fosse, perché non se ne separasse mai. Ma se lo sventolassimo oggi, esso rappresenterebbe la bandiera del romanzo: bandiera di ridotte proporzioni – e per ciò stesso adeguata, a misura della nostra competenza e a misura della nostra fedeltà a un bene che né l’eterno né il tempo ma solo e sempre giustamente lo “spirito del tempo” insidia proprio in ragione del suo desiderio di alzare la voce, di “compiere il balzo” scansando gli ostacoli più vili e, per la sua stessa natura patologica, di ammantarsi.