di Giorgio Caproni
Conobbi da vicino Giacomo Debenedetti in veste di precettore: una sorta, ancorché non abate, di piccolo Parini, in una casa che per quarti di nobiltà non si lasciava certo bagnare il naso né dai Serbelloni né dagli Imbonati.
Giacomo (ma mi ci volle un po’ prima d’abituarmi a chiamarlo così); Giacomo era preoccupato per la deplorevole riuscita scolastica del caro figlioletto Antonio, del tutto refrattario – sembrava – sia alle buone norme sia alle proficue nozioni impartitegli alle elementari. Aveva bisogno « di un polso » che lo riportasse a ragione, e fu Libero Bigiaretti, cattivo consigliere per la troppa stima in me come pedagogo (ero allora maestro di scuola), a suggerirgli mia persona.
Così per la prima volta varcai il portone di via Santa Melania per trovarmi, tremebondo, al cospetto di lui: del lucidissimo scrittore e critico la cui intelligenza, agile come un fioretto e pungente come una lingua di fuoco, aveva sempre suscitato in me, accanto all’ammirazione e alla devozione, quasi un sacro terrore.
Macché. Debenedetti si mostrò fin da quella prima visita affabilissimo nella sua ineguagliabile correttezza di modi, mostrando perfetta conoscenza dei miei pochi scritti, e gratificandomi d’un’umana simpatia che non tardò a tramutarsi in schietta amicizia. [..…]
Di lui ho un ricordo, come dire?, a spezzoni. Ho degli spezzoni di ricordo, ecco, e non una memoria continua in grado di comporre, se non proprio un brano compiuto di storia, almeno un tratto di cronistoria in qualche anodo utile, oltre che a me, agli altri. La nostra amicizia era ormai al punto di permetterci, senza incrinarsi, i più piccanti battibecchi. Sarà soltanto di questi che ora accennerò, anche perché persuaso che le sue virtù (di natura non soltanto intellettuale) siano troppo note per essere sottolineate. [..…]
Comincerò, facendo un salto nel tempo (non è mia intenzione, in questa frettolosa noterella, rispettare i tempi), comincerò col battibecco e contrasto più grosso e, fra noi due, più clamoroso. Innesto la retromarcia e filo « a culo indietro » (avrebbe detto Gadda) fino al ’59. Avevo vinto, col Seme del piangere, il “Viareggio”, ed ecco che Giacomo, mentr’io ero ancora ignaro del fatto, mi telefona per annunciarmi la vittoria, ma anche per esortarmi, perentorio nonostante l’innata cortesia, a ritirarmi. « E perché, se non ho nemmeno concorso? Il mio libro non è mai apparso in nessunissima rosa. Non datemelo, il premio, e tutto è fatto ». « E’ impossibile non dartelo, perché hai l’unanimità. Perciò rifiutalo. Appunto perché non hai concorso, il tuo rifiuto dev’essere accettato per forza ».
Non mi capacitavo. Proprio a proposito del Seme, su tanto di carta intestata Facoltà di Lettere e Filosofia, mi aveva scritto poco prima questa letterina, che naturalmente conservo ancora nel mio più geloso scrigno: « 12 luglio ’59, Governo vecchio 78. Carissimo Giorgio, grazie del libro. Dopo quello di Penna (cronologicamente parlando), è, in questi anni, il più grande avvenimento della poesia italiana. Vorrei tanto vederti, parlarti, dirti l’ammirazione affettuosissima che ho per te. Anche l’uomo Caproni mi sembra eccezionale per il pudore nella tenerezza, negli affetti, nel “dolore” (questa cosa, al mondo, la mieux partagée”) [...] Ti abbraccio. auguro al tuo libro la fortuna che merita (e anche se ne avesse un po’ meno del giusto sarebbe già grande). Tuo Giacomo Debenedetti ».
No, non mi capacitavo. Soltanto a Viareggio seppi che Giacomo si era impuntato sul nome di Villaroel, forse, pensai, per ragioni puramente umane, a me ignote, non potendo credere che stimasse troppo Villaroel come poeta. Comunque, non gliene volli per questo, e nemmeno per il Premio speciale per la poesia che, in favore di Villaroel, era riuscito a far istituire. Premio che veniva a porre, appunto perché speciale, l’autore della Bellezza intravista al di sopra di quello del Seme.
Giacomo, nonostante la trovata o scappatoia che venne a salvare… caproni e cavoli, mi tenne un po’ di broncio durante la cerimonia, ma presto tornò ad essere, verso di me, l’amico “ammirato” che si diceva. “Ammirato”, anche se io direi piuttosto generosissimo, e non soltanto di lodi immeritate, rea di concreti aiuti, sapendomi in bisogno, come l’incarico che mi diede (faccio un altro salto nel tempo) di tradurgli l’intero teatro di Genet, più Pompes funèbres e una fitta antologia dagli altri romanzi. Un’impresa da far accapponar la pelle, e che rifiutai recisamente dopo la terribile esperienza del Céline, mentre lui non volle intender ragioni e mi « costrinse » (pena, la perdita dell’amicizia) ad accettare, malgrado le mie proteste d’incapacità. « Sei un ingegnere della parola », mi fece in tono imperativo, « e devi riuscirci. Per amor mio. A parte il fatto che ti aiuterò in tutti i modi ».
Non mi aiutò per un bel nulla, e invano andai spesso alla Mondadori dove lavorava, per ricever lumi. « Ti ho già segnato i brani da antologizzare », mi diceva sorridendo. « Per il resto, cerca di far da solo » . E mi chiedeva frenetico una sigaretta, mica perché non ne aveva, ma perché, per fumar meno, le teneva chiuse in uno strano portasigarette a forziere che, grazie a un meccanismo a orologeria, lasciava schizzar fuori « une dame blanche » soltanto a periodi determinati, col risultato di renderlo furioso.
Ma i battibecchi più grossi avvenivano in occasione di quei premi dov’eravamo insieme in giuria. Il « Vann’Antò », per esempio, per il quale aveva sempre il suo « vincente » in tasca. Raggiungevamo Messina insieme, in vagone letto, ed era lì che mi sfoderava imponendomelo) il suo candidato. Una volta che tenni duro con un risolutissimo no, « Non ti parlo più », mi disse con uno scatto degno di Swann, andando a rinchiudersi nella sua cabina a bersi da solo lo strano miscuglio d’acqua calda e cognac che di solito gli piaceva spartire con me.
Scene simili avvenivano in aereo (aveva una gran passione per l’aereo: « Una mia vocazione al suicidio », mi confidava), ma non da meno erano i battibecchi in fatto di musica: la solita sciocca tenzone, allora di rito, fra Mozart e Beethoven. « Ma leggi le partiture, confrontale », gli dicevo approfittando del mio non completo analfabetismo in fatto di composizione. « Mi prendi per un ciuco, già ». E di nuovo mi teneva il broncio, perché un ciuco non lo era davvero. Ricordo certi suoi interventi, a Viareggio, di fronte a Petrassi, a Gavazzeni, a Macchia, che mi lasciavano a bocca aperta per la loro intelligenza.
L’intelligenza di Giacomo, del resto, era notissima. In tutto e in tutti. Eppure lo hanno lasciato morire nell’amarezza (per non dire d’amarezza), negandogli quella cattedra dove nessuno, meglio di lui, avrebbe potuto meritarsi il titolo di Maestro. Un vero Maestro come veniva inteso una volta, capace di dispensare il proprio sapere non soltanto in aula, con i suoi corsi e le sue lezioni, ma « nel mondo » con le sue opere.
Basta. Mi viene in mente l’ultima volta che andai a trovarlo, già steso sul suo lettuccio di morte, e con un nodo in gola mi fermo qui. Di lui comunque m’è rimasta un’eredità: il preferire, sempre, all’esprit de géometrie, l’esprit de finesse.