La Poesia combatte col Rasoio: dall’avantesto al racconto critico

di Maria Antonietta Grignani

1. Svevo non apprezza Amedeo e rimane deluso perché Debenedetti, durante una conferenza a Trieste, non l’ha definito il Proust italiano. Debenedetti pesca nei ricordi di un incontro triestino per far avallare implicitamente dalla voce di Ettore Schmitz la sua propria tesi di critico circa l’ebraismo inconsapevole delle controfigure testuali Alfonso Nitti, Emilio Brentani, Zeno Cosini.

Il primo aneddoto è largito agli studenti del corso universitario 1964-1965 (indi ripreso nella nota all’edizione Scheiwiller 1967 di Amedeo; dove la lingua batte anche sulla « sferza di un postumo giudizio tremendamente negativo » di Svevo a Amedeo): « Un critico italiano di Proust era andato a Trieste per tenervi una conferenza, appunto, su Proust. I giornali locali l’avevano annunciata e, nella cortese intenzione di attirare un pubblico più folto, avevano soggiunto che la conferenza presentava un particolare interesse nella città “del Proust italiano”. Venuta la sera, il conferenziere trovò seduto in prima fila proprio Italo Svevo, che non staccò per un attimo da lui un occhio [...] un po’ ansioso o per lo meno interrogativo, quasi che egli attendesse il famoso paragone. Questo, naturalmente non venne […] ».

Il secondo si legge nella Lettera a Carocci intorno a “Svevo e Schmitz” (1929), difensiva e autobiografica come ogni lettera aperta che si rispetti. Qui Debenedetti rammemora la visita dell’anno prima a villa Veneziani aggiungendo, come a caso, un piccolo particolare, in verità a percorso comunicativo obliquamente autoapologetico: « Giù per le scale, mentre ci accompagnava nella veranda, [Svevo accennò a Franz Kafka. Voleva scrivere di lui: un profilo, un saggio. Fece una pausa: "Sì, era ebreo. Certo quella dell'ebreo non è una posizione comoda..." ». (1)

Ce n'è abbastanza per disoccultare, in questo tiro incrociato di ricorsi conflittuali alla vita vissuta, quell'affinità che Ottavio Cecchi ha spiegato con l'autobiografismo sotteso a entrambi, al romanzo dell'uno come al saggio critico dell'altro. (2) Forse perfino una somiglianza più drammatica, se è vero che quella compassione filo-antisemita, che come vuole Debenedetti da Weininger stinge su Svevo, Umberto Saba, con proverbiale catastrofismo e occhio dell'oltre, la ravvisava proprio nell'amico Giacomino: « Altre cose di me che possono esserti dispiaciute sono l'accusa che ti ho sempre fatta di esser - senza sapere di esserlo - un antisemita (non ci sarebbe niente di male data la nobiltà del tuo carattere se tu lo fossi in modo cosciente, mentre così puoi diventare addirittura pericoloso)... » (lettera del 27 aprile 1946). (3)

Con un pizzico di malizia potremmo leggere gli inserti aneddotici della parte dedicata a Svevo nel Romanzo del Novecento come confessioni involontarie di certa procedura debenedettiana: in Svevo - dice il critico erano all'opera subdoli meccanismi di sostituzione quando, mentre credeva di parlare di Joyce, in verità tesseva la propria apologia dissimulata, inglobando per giunta nella rielaborazione della conferenza milanese del '27 su Joyce anche l'accenno piccato al silenzio col quale l'amico irlandese aveva accolto le sue fatiche interpretative; ma lo stesso può dirsi della mise en abyme di questioni private entro scritti pubblici, che dalla Lettera a Carocci e dal Romanzo del Novecento fino alla nota del 1967 a Amedeo abita le ricadute sul caso Svevo.

Sentiamo: « Molto sveviano, dello Svevo bonariamente malizioso, questo modo di includere nel saggio critico sull'amico anche l'aneddoto un po' vendicativo dell'offesa che egli ne aveva ricevuta » (RN, p. 560). Certo, molto sveviano, e però anche molto debenedettiano, con un di più di civetteria, dato che il soggetto si nomina qua e là come « un vecchio critico di Svevo » (p. 521), « un critico italiano di Proust » (p. 559), oppure insuffla con un ammicco: « Poco dopo la lettura milanese su Joyce, Svevo incontrò a Trieste un altro conferenziere » : l'altro conferenziere è sempre quello che si è sottratto in quel di Trieste, e sulla pagina, al gratificante binomio Proust-Svevo e che perfezionerà l'affondo col negare qualsiasi parentela Joyce-Svevo.

All'altezza degli anni Sessanta, quando il bilancio sul personaggio-uomo è alle porte e le "leggi di proibizione" dalla fisica quantistica riverberano sul romanzo moderno (da Pirandello a Joyce a Kafka), Debenedetti - fermo sulle proprie posizioni quanto a Svevo - nelle lezioni universitarie si concede pro bono discentiurn movenze ilari, quasi chapliniane, con la metafora continuata di Svevo e del suo doppio che saltano sull'autobus della buona sorte dopo averlo aspettato per un tempo interminabile; ma sciaguratamente, una volta saliti, si trovano a percorrere un itinerario sbagliato:

Nel caso di Svevo, invece, si parlerebbe del desolato pedone al quale si offre di sorpresa l'autobus, su cui non contava più. [ ...] Tornando al nostro autobus, riferendo la situazione al personaggio anziché all’autore, la sorte di Zeno è di venir caricato su quell’ormai inatteso veicolo che si trova passare di lì, quando lui si era ormai rassegnato a rimanersene lì per sempre a piedi con le spalle contro il lampione della fermata. [...] Per consumare definitivamente la nostra immagine: arrivò l’autobus, Svevo vi salì, fece la strada sperata, ma con un itinerario sbagliato. (RN, pp. 520-524)

Le pagine scorrono amabilmente tra conferme della propria diagnosi antica, tentazioni psicoanalitiche e analisi contrastive: tra l’altro resta indelebile nella memoria del lettore l’ossimoro definitorio della « condanna all’assoluzione », che risolve nella felicità della battuta paradossale l’inversione del Processo di Kafka: il lieto fine, l’indennizzo gratuito che la vita porge a Zeno sarebbe anche paradigma e oroscopo della fortuna tardiva, indi postuma, del suo autore, sostanzialmente legata, nell’ottica della ricezione, all’equivoco, per cui si mise in un sol mucchio Svevo coi tre grandi prosatori del secolo.

Ben più arroventata era l’atmosfera intorno al “caso” Svevo tra il 1925 e il tardo 1928, quando Debenedetti dava il saggio più impegnativo al numero del “Convegno” che intendeva onorare con un “omaggio” lo scrittore appena scomparso; un tempo – scriveva in limine – di « zelanti elaborazioni critiche », con inviti alla lettura firmati da amici come Montale e rafforzati dal “lancio” francese di Crémieux e Larbaud. L’advocatus diaboli sapeva bene di andare controcorrente con la sua tesi “forte”, ma sapeva anche che la dimostrazione nella critica letteraria non è inoppugnabile come in matematica, fondandosi sulla capacità di dissuadere da una precedente opinione e indurne una nuova o, con parole di Debenedetti, coinvolgere il destinatario nelle volute di « una prosa sostenuta dalle nervature sostanziose del ragionamento e, insieme, sensibile alla varietà autobiografica di chi la scrive. Il quale, nell’apprezzamento e nel giudizio dell’arte, porterà il timbro specifico e incomparabile della sua personale esperienza di vita». (4)

Lo scacco epistemologico delle scienze umane, ove soggetto e oggetto si implicano a vicenda, il paradosso statutario del critico diviso tra istanze espressive. e compiti comunicativi, tra ragioni del cuore e ragioni della ragione, tra l’assedio notturno, fatto di adesioni empatiche e auscultazioni e ripulse, e la sintesi diurna da organizzare freudianamente in casi clinici che si leggono come novelle; questa difficile amministrazione di spinte in contrasto è sottesa all’intera parabola del lavoro debenedettiano: « il compito del critico è di esprimere, al di sopra delle sue legittime, umane aspirazioni ad esprimersi » (RN, p. 669).

Il paragone con la favola biblica della lotta di Giacobbe contro l’Angelo slitta da una recensione del 1936 al bilancio postremo (e uscito postumo) di A proposito di “Intermezzo “, a ribadire, per via d’immagini, le ambivalenze di un’ermeneutica combattiva, che percorre la sintomatologia orizzontale in vista della diagnosi del nocciolo profondo, con l’aiuto della memoria involontaria, dell’inconscio e dei raccordi analogici (« spiegare consiste [...] nel rivelare che una cosa è come un’altra cosa »):

Quella poesia che egli aveva ferita con i suoi colpi, straziata con le proprie analisi, si ricompone nella sua più vera ed efficace figura. E come l’Angelo di Giacobbe, il poeta in quel momento tramuta le angosce della notte in benedizione, benedizione per tutti, della quale il critico nella sua qualsiasi misura, diventa un poco il tramite, l’amministratore. (5)

La benedizione diurna, partecipabile quasi sabianamente a tutti, nasconde la colluttazione svoltasi nel campo notturno della lettura analitica, ove « la Poesia combatte col Rasoio », giusta la citazione burchiellesca che le lezioni universitarie (RN, p. 661) riprendono dal giovanile Critica ed autobiografia. Già lì la naturalezza delle impressioni di lettura o “poesia del critico” era opposta all’indole “discorsiva” della critica, tutta in funzione del giudizio. E questa seconda, diceva Debenedetti giovane, « è la parte del rasoio ».

In nuce erano all’opera nella metacritica debenedettiana sia la nozione di circolo ermeneutico di Heidegger, con l’andirivieni tra anticipazioni del senso globale, o progetto interpretativo, e testo quale banco di prova capace anche di sedurre e deviare da quel progetto, sia il concetto gadameriano di distanza e polarità tra ciò che è affine e ciò che resta estraneo tra testo e interprete. Del resto le ricchissime implicazioni culturali di un tale critico « sulle tracce di Orfeo » (Lavagetto), la « severità quasi dolorosa » nascosta dietro l’oliata macchina del « racconto critico» (Pasolini e Sanguineti) sono già state messe in luce dagli osservatori del metodo suo. (6)

    2. Per parte mia non intendo munirmi di alcun rasoio per contrastare a colpi di schedature il fascino delle pagine di Giacomino, infrenabile poesia della poesia del critico. Soltanto metterò a confronto alcuni appunti di lettura inediti e il saggio Svevo e Schmitz che ne è la risultante, per tastare certe nervature dinamiche che dall’avantesto o « fase generativa pre-testuale » portano allo scritto in pubblico. (7) Le metamorfosi dall’autocomunicazione all’oggetto persuasivo e accattivante sciolgono le more degli appunti, ancora aperti a ventaglio, generativi sì, ma separati dalla stesura legata da uno iato paragonabile a quello che intercorre tra la gestazione per coaguli, non necessariamente teleologica, e la pagina letteraria. Il momento della decisione e della forbice che recide viene dopo, quando urge la regia dell’architettura testuale e del corredo argomentativo, di cui gli appunti marcano le componenti segrete e i materiali da costruzione allo stato fluido.

I diciannove fogli autografi, donati da Renata Debenedetti al Fondo Manoscritti di Autori contemporanei dell’Università di Pavia, per quanto ampiamente lacunosi, costituiscono un diario di lettura o meglio un canovaccio di fitte citazioni commentate da Una vita e Senilità (della Coscienza sopravvivono poche reliquie), con rinvii esatti alle pagine delle prime edizioni di ciascuna delle tre opere, sulle quali il critico ha lavorato. (8)

Con un’eccezione: un paio di fogli (8r, 9r) contengono appunti da Sesso e carattere di Weininger (come noto tradotto fin dal 1912 per l’editore Bocca di Torino) e dunque mostrano operante la chiave interpretativa che, con un colpo di scena di tipo schiettamente narrativo, dal nom de plume italo-germanico pescherà nella parte finale del saggio il fondo ebraico di Ettore Schmitz. Anzi, in una di queste note il fatidico binomio, del tutto esplicito, conduce per direttissima a negare la sostanza di “mito” al personaggio sveviano: « L’antisemitismo degli ebrei ci fornisce dunque la prova che nessuno che li conosca li trova degni d’amore. In Svevo c’è la compassione filo-antisemita dei suoi eroi; non c’è l’amore che ne fa dei Miti » (c. 8r). Che Weininger fosse ben presente al Debenedetti lettore in progress che ara diligentemente da capo a fondo i romanzi passando di sintomo in sintomo, è provato da altri luoghi. Ecco un esempio da Senilità: « L’ebraismo di Emilio – sentirsi inceppato di fronte al libero, sigfridesco, ariano – stinge anche su Amalia – lei aveva avuto perfin paura di parlare d’amore: Stefano ne parla con tranquillità – Stefano è l’ariano di fronte ai due» (c. 7r).

A questo punto ci si aspetterebbe un vettore di lettura orientato da quel clic originario, un leggere sul rovescio del detto il non detto, quel tipico circolo ermeneutico debenedettiano in cui il centro o meglio il sintomo è lo stile, il cerchio l’orizzonte morale in cui si inscrive il carattere o, junghianamente, il tipo dell’eroe proiettivo. E invece gli appunti di lettura si aprono, a monte delle callide amputazioni che l’imperativo giudicante e il gusto dell’amplificazione probatoria proporranno più tardi; stanno cioè dalla parte della “poesia del critico” in attesa che le agnizioni forti sbaraglino l’impressionismo, proprio come spiega l’autodiagnosi già citata di Critica ed autobiografia:

Da una parte, l’amabile e lusinghiera naturalezza delle impressioni di lettura che vorrebbero effondersi intatte e ancora tutte roride del loro ingenuo fluido vitale: e questa è la parte della Poesia: la poesia del critico. Dall’altra, l’indole prettamente discorsiva della critica, che accetta le impressioni solo in quanto possano apparire come funzioni di un giudizio: cioè abbiano cessato di essere semplici impressioni: e pertanto le amputa, riluttanti, del troppo e del vano. Questa è la parte del Rasoio.

Con andamento di sintassi nominale, molti appunti di lettura sottolineano l’agire (o il non agire) dei protagonisti in rapporto ai commenti autoriali più o meno palesi. Uno scrutinio minuzioso registra l’inettitudine alla vita di Alfonso e di Emilio, seguiti in sintonia con la guida del narratore. Per esempio, se al cap. IV (p. 24) di Una vita la voce narrante commenta: « Alfonso credeva di avere dello spirito e ne aveva di fatto nei soliloqui », Debenedetti parafrasa e postilla:

24: progetti fatti per una realtà non controllata né conosciuta. Alfonso si crede uomo spiritoso: in realtà non ha mai fatto dello spirito altro che durante i propri soliloqui. Questo spirito ch’egli si suppone – recubans sopra – cade al primo contatto sociale. (c. 12r)

Dell’abbondante messe analitica, da cui ho tratto un esempio in economia, nel saggio si salva una sola citazione, quella in cui più chiaro suona l’accento di Svevo che « giudica continuamente e condanna, quasi perché gli estranei siano attratti a ristabilire un po’ di giustizia, assolvendo il meschino ». Con riferimento a Una vita (cap. VI, p. 68), metto a fronte l’appunto e il passo di Svevo e Schmitz:

68: drammi, romanzi e peggio – sogna Alfonso per l’avvenire, venutagli l’ambizione.
E qui (vedi quel peggio) Svevo interviene per condannare.(c. 13r)
Cresciuta l’ambizione, si mette a prendere appunti, che già indoviniamo vani, con la velleità di servirsene « in un lontano avvenire per opere maggiori, drammi, romanzi, e peggio ». (Siamo noi che sottolineiamo questo peggio, dove si scopre più a nudo il vero accento dell’autore.) (p. 66)

Pur avendo alle spalle una schedatura ingente, Debenedetti non ama sciorinare una folla di citazioni, comprime la tassonomia del funzionamento fisiologico del romanzo per circumnavigare quanto prima la fisionomia poliedrica e sfuggente di quella figura immanente al fatto compiuto testuale che, in termini narratologici, chiameremmo autore implicito.

Infatti nel saggio il sintomo formale visto sopra, prodotto una tantum quale campione, è rafforzato subito da un’immagine atta a dare in metafora il senso della partecipazione dolorosa di Svevo al destino dell’eroe: « La sonda psicologica torna a galla bagnata di un umore cruento » (p. 66).
A questo proposito sia consentita una breve riflessione contrastiva sul ruolo delle lingue speciali, diverso nel lessico di Contini e in quello di Debenedetti. Nel primo la mimesi del modello scientifico è per lo più presa in carico dal soggetto, la cui autorità peritale accentra, con l’adibizione della metafora giuridica, medica ecc., una funzione giudicante estromessa dall’apparato critico, in cui abbondano invece le schedature e le citazioni testuali. Si veda, dall’Introduzione ai narratori della Scapigliatura piemontese, la stessa metafora della sonda, delegata agli addetti ai lavori: « Qui il nostro scrupolo si lascia cogliere in fallo; e abbandoniamo ad altri, più impavido a immettere i suoi specilli e le sue sonde, le verifiche dirette ». (9)

Nel Debenedetti, invece, le immagini drenate dalle tecniche o dalle scienze si fanno più puntute quando sono orientate non sul soggetto (il lettore professionale), ma sull’oggetto medesimo in discorso, come se la metafora scientifica potesse dare una mano non tanto all’auctoritas del diagnosta quanto allo svelamento del “male” occulto dello scrittore.

L’appunto privato cede alle seduzioni della pagina, registra benevolmente i profili dei personaggi minori accanto alle maschere irredimibili dei maggiori, mentre lo scritto definitivo persegue implacabile il suo fine, di nuovo ricorrendo a una metafora tecnica: « C’è un vero sbalzo barometrico nel clima entro cui [Svevo] immerge i primi e i secondi » (p. 65). Pertanto l’episodio di Annetta Maller, che si agita miniando una canzone volgare, in sede provvisoria può indurre l’appunto empatico: « La canzone di Annetta, che finge di correre cantando, fa veramente episodio caratteristico, sintesi » (c. 12v); per contro nel saggio l’apprezzamento è compresso dalla segnalazione di quello sbalzo barometrico tra protagonisti e comparse, queste ultime appartenenti « ancora più al dominio della storia naturale, che a duello della morale » (p. 68), dunque passibili di salvezza e non condannate senza appello come Alfonso e compagni, giacché – ed ecco un’altra metafora tecnica – con i minori « Svevo potrà avere acuminata ed esasperata quanto si voglia la notazione: nella manovra, la sgorbia note gli è sfuggita fino a incidergli la sua propria carne, a fargli del male » (p. 68).

Le reticenti implicazioni autobiografiche rintracciate sotto la testura dell’opera generano per antitesi paragoni insistiti con narratori ottocenteschi quali Tolstoj o Stendhal, laddove la reazione immediata di lettura tendeva qua e là a legare Svevo ai modelli classici.

Per esempio, l’ammirazione acritica di Alfonso Nitti per le suppellettili di casa Maller, corretta dalla guida della voce narrante, suscitava un raccordo benevolo con la tecnica stendhaliana (cap. IV, p. 29):

29: una guida esterna, per correggere gli errori dei personaggi: con un movimento ipotetico alla Stendhal: « Un occhio più esercitato avrebbe scorto in quell’addobbo qualche cosa di eccessivo, ma era la prima volta che Alfonso vedeva di tali ricchezze e si lasciava aggagliare ». (c. 12v)

Stesso moto di simpatia nasceva pro tempore di fronte all’incidente occorso a Emilio Brentani sulle tracce di Angiolina nella notte di carnevale (Senilità, p. 93):

93: meravigliosa l’idea di quella caduta che, scorticandogli le mani, esaspera l’uomo già esasperato dalla gelosia. (c. 7v)

Puntualmente prende le distanze la pagina lavorata, dove, dall’opposizione netta istituita da Debenedetti tra i dolorosi-ambigui personaggi di Svevo e i miti di unanime partecipabilità di un Tolstoj o di uno Stendhal, il Brentani esce malconcio: non essendo lui una voce del dizionario intimo di ognuno, la sua « non è certo la caduta di Fabrizio del Dongo sul campo di Waterloo» (p. 89).

Il moto ondulatorio della lettura postillante, tra adesione e ripulsa, è punteggiato di azzeccatissime osservazioni stilistiche in ordine ai vari piani del racconto. Tra queste, molto acute le note sul discorso indiretto che sortisce inaspettati effetti realistici nonostante il carattere intellettualistico, o i rilievi sulla tecnica sveviana, che alterna sfocature e primi piani nell’episodio del colloquio di Annetta con Alfonso, ospite inibito e incapace di pronunciare le « frasi semplici ma concatenate » che gli si erano affacciate alla mente (cap. IX, pp. 111-114):

111: Come riferisce la conversazione, indirettamente. È intellettualistico come impostazione, realistico (e qui assai comicamente umano) come effetto.114: questa prima intervista con Annetta è tutta accampamenti e sfocature improvvise della figura fisica di lei, fino a quell’ultimo avvicinamento microscopico, che fa scoprire le pieghe del collo. (c. 14r)

Non verrà sviluppato neanche un coagulo meno cursorio, anzi un possibile palinsesto di critica stilistica, che si presenta nella forma di enunciazione autocomunicativa e insieme già programmatica della prima persona singolare:

Analizzo il movimento di Senilità (p. 16) per mostrare come Svevo usi il pezzo (paese, ambiente), come puro materiale, quasi obbedendo consapevolmente ad una regola o convenzione del fare romanzesco (quasi accodandosi ad una scuola), ma poi senta anche il bisogno di smontarlo. Non gli basta di far sentire quanto il pezzo si leghi all’interiorità del dramma, deve depotenziarlo del suo valore di pezzo. Ecco Emilio Brentani ha baciata per la prima volta l’Angiolina poi « guardò a sé d’intorno le cose che avevano assistito al grande fatto ». Qui potrebbe attaccare la descrizione ambientale del paesaggio; la quale, date queste premesse, avrebbe già anche acquistata la sua portata psicologica. « La luna non era sorta, ecc. ». Invece deve prima smontare il pezzo e attaccare – anzi che in pieno squarcio descrittivo – con un minuscolo, stridulo, depotenziante: – Non c’era male! – (c. 2r, v)

Nell’episodio del primo bacio tra Emilio e Angiolina la rinuncia alla descrizione autoriale a favore dell’ottica depotenziata di Emilio poteva innescare un pionieristico o meglio profetico percorso d’analisi sulla focalizzazione interna del punto di vista (si tenga presente che Svevo e Schmitz uscì nel 1929! ). Invece nel saggio Debenedetti amputa il troppo e il vano, articolando un giudizio lapidario sui due campi analogici chiave della malattia e del destino: « L’ambiente, anziché agire sulle persone, fa parte di esse, è attaccato alla loro umanità come una malattia. Se lo portano addosso come un destino » (p. 55).

Insomma, il critico-lettore si permette di trasalire, come il suo Amedeo, « nel sottolineare, leggendo, una frase suggestiva, come nell’incontrare un gobbo al primo uscire di casa », ma al critico-personaggio la dichiarazione della psicologia dell’implicito impone una mediazione tra oggetto estetico e pubblico, sì da tenere a bada le lusinghe e le ripulse, che si erano offerte inquietanti ed enigmatiche come nel borgesiano giardino dei sentieri, che si biforcano.

Ho parlato finora di lusinghe, ma non mancano le ripulse che per esempio occhieggiano negli appunti sulla lingua.

Com’è noto, la definizione dell’italiano « fortuito e avventizio » di Svevo, fuori dall’unità di misura della tradizione letteraria – che resta una delle pagine più presaghe della stilistica di Devoto e di Contini – viene dislocata con un coup de théatre nel bel mezzo della fatale equazione Weininger/Svevo: per dirla col saggista « in qualità di “divertimento” (se alle nostre operazioni di critici è lecito togliere in prestito la bella parola dei musici) », giusto per interrompere la tensione accumulata dal corpo a corpo con Ettore Schmitz e suggerire che il problema dell’ “esperanto” sveviano sta avviandosi “spontaneamente” alla soluzione, anzi all’assoluzione, su base extralinguistica (p. 83). Lo « strano e personale dialetto intimo » sillabato dai personaggi è onomatopea di quanto nasce al di qua della pagina, nella « profondità appartata » in cui si forma il fantasma autobiografico che infesta l’autore. Con pronta giustificazione Debenedetti cita una sola parola, valida per l’insieme: la barba del Lanucci « condizionata in quanto a colore come la capigliatura »; parola di tintoria, quel condizionata, ma tessera esemplare del « sensibile, energico e suggestivo gergo di Italo Svevo » (p. 86).

Certo, a botta calda, la lingua sveviana non pare abbia entusiasmato il critico, se si presta fede a una lettera di Montale a Svevo: « Riguardo a Debenedetti non è vero che sia ostile all’arte Sua. Certo, letterato fino al midollo com’è, fece molte obiezioni formali, ma ammise ch’Ella è l’unico romanziere italiano vivente.» (lettera del 3 dicembre 1926). (10) Di questa schifiltosità iniziale gli appunti portano qualche traccia, pur azzeccando subito la natura peculiare dell’italiano avventizio del triestino. Ecco un sobbalzo, risentito, all’incontro con la barba condizionata del Lanucci: « È vocabolo tolto all’arte del tintore con intenzione ironica? Ma gli manca in ogni caso la sobrietà di un linguaggio adeguato che non strafà » (c. 11r). Ecco l’espressione,faceva la bella gamba, detta del servo lazzarone dei Maller, così postillata: « come italiano farebbe ridere » (c. 10r).

Però il « letterato fino al midollo » non è un formalista e perciò tenta già al livello aurorale di comprimere la crisi di rigetto, bucando la forma per attingere l’etimo spirituale del fatto linguistico; e lo fa con questa ipotesi dubitativa alquanto ingegnosa, riassorbita più tardi nella formula, più equa ma non meno sottile, della lingua-utensile:

Si direbbe – se non si temesse di cader nel sottile – che la stessa mancanza di rapporti causali, che corre nei rapporti degli eroi di Svevo, tra il loro contegno e l’effetto di un tal contegno – si riproduca anche nell’uso delle parole che fa Svevo: tra la parola e l’effetto della parola. Quel cribrava, per es., a p. 159, che è straordinariamente preciso ed esatto: e tuttavia non riesce a parer giusto. (c. 16r)

    3. Ma è tempo di lasciare la collazione, con qualche rimorso per aver curiosato tra le carte segrete di un lavoro che vige in quanto momento transitivo, scritto in pubblico e per il pubblico.

Di fronte alla pagina a stampa si fa più forte la tentazione di brandire il famoso rasoio per notomizzare l’abilità di architetto e di narratore del « meraviglioso metaforista che fu Debenedetti, sempre atteggiato in favola altamente drammatica e ironica… ». (11) Con gli strumenti della retorica varrebbe la pena di misurare il modello persuasivo sotteso alla descrizione e all’interpretazione sia delle caratteristiche formali sia, e soprattutto, di quelle semantico-psicologiche della trilogia sveviana. Si potrebbe – si potrà in sede specifica – individuare l’assieme delle assunzioni critiche e quindi il gioco di amabile discorsività che le dissimula e le dissemina donec ad regnum caritatis interpretatio perducatur.

Senza addentrarmi in un problema complesso sotto il profilo teorico e storico-critico, mi limito a segnalare brevemente alcune procedure di Svevo e Schmitz che sembrano estensibili all’intero metodo di un critico per il quale l’analisi formale è sempre stata, e da un certo momento in poi lo è stata del tutto consapevolmente, un primo gradino per accedere al midollo sostanzioso del “caso clinico”.

Premetto allo schema d’analisi il seguente passo di una lettera, scritta da Debenedetti a Saba il 5 dicembre 1947, autocommento più che eloquente per capire la filigrana etica della saggistica in forma di racconto di Debenedetti:

Veniamo a ben’altro: tu mi chiedi un’analisi “formale”. In questo momento, mi sono invece accorto che le mie premesse giovanili si sono ormai maturate – nella misura in cui a me è consentito di maturare – in qualcosa di sempre più inderogabile: e questo qualcosa comporta che l’analisi formale di un artista sia un momento della critica: il momento della sintomatologia, che deve poi essere assorbito dalla diagnosi. Ti dico grossolanamente cose che sto pensando con molto maggiore, e purtroppo più difficile, precisione. (12)

Questo l’inizio del saggio in questione:

Mi pare che fino a oggi la naturale preoccupazione per il cosiddetto “caso Svevo”, senza dubbio sintomatico nell’aneddotica delle fortune letterarie, abbia soverchiato – o fatto impostare solo parzialmente – la critica di Svevo, che è un bello e arduo problema. [...] È di ieri, 1925, l’invito dell’amico triestino molto à la page, che ci insinuava tra le mani La Coscienza di Zeno con una complicità da “fratello” framassone, tenebrosa, confidenziale ed evasiva […] Così, teste Joyce cum Larbaud, avevamo letto Zeno [...] L’amico triestino forse non sospettava di aver buttato nell’aria di qualche pomeriggio ventoso, tra una libreria e un caffè, il germe di un’audace rivendicazione letteraria.

Ma, dopo l’esordio in chiave autobiografica (la lettura stimolata “ieri” 1925 in Debenedetti e Montale dall’amico Bobi Bazlen), balza agli occhi la distanza tra tempo del discorso e tempo dell’antefatto (il sorgere del “caso” letterario), procurata da una serie di forme impersonali e di imperfetti del verbo. Il che non era inevitabile, se si pone mente ai tre anni scarsi che separano la scoperta italo-francese di Svevo dal lavoro di Debenedetti. Di fatto il taglio fin troppo storicizzante è in asse con gli argomenti di dissociazione che il critico tiene in serbo rispetto al canone interpretativo instauratosi. Un esempio:

Naturalmente, l’urgenza del primo momento non era certo quella di dissociare Svevo nei suoi elementi costitutivi: ché anzi si trattava di apprestarne un profilo, quasi una fotografia per tessera [...] Conoscerlo era davvero come riconoscerlo [...] Italo Svevo, ovvero il romanziere. (p. 48)

Nel ragguaglio si affaccia un solo pronome di prima plurale, che con Benveniste definirei io un noi esclusivo (cioè un io+loro), (13) ove il soggetto che enuncia sembra aderire alla confraternita degli addetti, fautori, ed escludere dal circuito comunicativo il voi, il lettore comune:

Avevamo dunque anche noi l’autore italiano da citare, qualunque ne fosse poi la reale statura, tra l’elenco dei massimi, e in un certo senso sodali, rappresentanti del romanzo europeo.

Quest’uso sornione della prima plurale cade ben presto, quando, lasciata riposare la situazione come si fa con “i vini generosi”, il critico esce allo scoperto, prende in contromossa l’opinione che apparenta il triestino ai romanzieri naturalisti e la sposta con la tecnica argomentativa della ripresa unita alla correctio, ovvero con la messa a fuoco progressiva che procura attenzione e adesione al nuovo rilievo critico:

Direi che in lui è innato il gusto del romanzo. [...] questo mi pare costituisca nelle sue assise il gusto del romanzo [...] Il gusto del romanzo non si era mai presentato presso alcun autore italiano in maniera altrettanto autentica, netta, esclusiva. [...] Gusto del romanzo, dunque; ma in un’accezione rigorosa, non nel senso di scuola o di maniera. (pp. 52-56)

Ora si abbandonano gli argomenti di cauta dissociazione rispetto alle tesi confinate in antefatto e si adotta il punto di vista della ricezione più larga, con la seguente domanda, diritta e un poco scandalosa: « Perché allora Svevo non fu, in buon senso, popolare, e non lo è nemmeno oggi? » (p. 56).

Passare dalla parte del lettore qualunque è una scelta di campo che deriva probabilmente dal magistero dell’amato Serra, ma che resterà congeniale all’etica debenedettiana, al suo postulare uno spazio intersoggettivo, al suo essere in definitiva fedele al significato della critica più che al mestiere; donde l’accesso a un noi questa volta inclusivo (cioè io+voi lettori) che trascende il soggetto e la confraternita. Il “racconto” è a un primo svincolo capitale e il critico, al lavoro per il bene del lettore, anticipa, con una robusta prolessi a suspence, la spiegazione di quell’impopolarità, preannunciando la soluzione che verrà fuori una trentina di pagine più in là, dopo il vario atteggiarsi degli argomenti intermedi:

Per colui che poté parere dapprima un narratore per eccellenza, si pone essenziale, chi voglia andare in fondo d’un certo disagio, il problema del rapporto tra romanzo e autobiografia. Anticipando in qualche modo la soluzione, diciamo subito che questo è il rapporto tra il pseudonimo dell’artista Svevo e il nome vero dell’uomo, Schmitz [...] Detto così, naturalmente, questo non è che un epigramma. (p. 57)

La prolessi a effetto, o anticipazione del quod erat demonstrandum, funziona come vettore sotterraneo nella parte centrale del saggio, in cui Debenedetti si muove a suo agio tra affermazioni di carattere generale, digressioni apparenti e distinzioni sottili, sempre puntando all’omologazione del terzetto di eroi sveviani. Ma l’argomentare di nuovo fa perno sulla ripresa di alcune immagini ribattute anaforicamente, che rafforzano a climax l’empatia da suscitarsi nel lettore rispetto alla tesi principale, che batte e ribatte sul personaggio uno e trino, odiosamato dal demiurgo. Catturata la metafora della «vita che slitta» sotto i piedi di Alfonso, Debenedetti la propaga a Emilio, a Zeno; lo stesso fa con quella delle « ali buone solo per i voli poetici » dei tre (dedotta da Una vita, episodio o meglio apologo del gabbiano, in cui si esercita il pragmatismo vincente di Macario contro l’inettitudine a vivere di Alfonso); anche l’analogia tra i nostri « inetti consapevoli » e il bambino, cui il meccanismo associativo imperfetto non consente di afferrare gli oggetti percepiti con la vista, torna in parallelismo a distanza di pagine:

come se la vita, il mondo, il terreno della pratica, per una misteriosa erosione, si sgretolassero e sfuggissero sotto il piede (p. 72): la vita [...] comincia a slittargli sotto i piedi (p. 74); E anche qui la vita comincia a slittare sotto i piedi di Emilio (p. 75); anche a lui la vita è slittata sotto i piedi (p. 75)

Il protagonista di Svevo ha sempre ali ma soltanto per far voli poetici (p. 64): Emilio Brentani evidentemente deluso nelle proprie aspirazioni di imprimere alla propria esistenza l’impeto di un volo (p. 74); hanno sempre un’ala – quella, beninteso, di cui parla Macario in Una vita, l’ala dei voli poetici – per nascondervi il capo (p. 79)

Agiscono come bambini, ai quali il meccanismo associativo non ancora esercitato impedisce di raggiungere col tatto gli oggetti percepiti con la vista (p. 72); È ancora come il bambino che non sa carpire col tatto l’oggetto accarezzato coll’occhio (p. 76).

A integrare il dibattimento processuale con l’autore e le sue controfigure si ripete la ricerca di uno spazio intersoggettivo mediante la convocazione del lettore in una spirale di discorso fortemente inclusiva, in cui il noi esce con decisione dal plurale maiestatico, usuale nel genere del saggio, per farsi figura della comunione con un interlocutore che si suppone condivida il reale psicologico alla cui luce vien valutato il fittivo romanzesco.

Giustamente prima Pasolini e poi più in dettaglio Grosser hanno notato in Debenedetti, accanto al rapporto di secondo grado con il reale, tipico della critica letteraria, un rapporto di coinvolgimento diretto con quella parte (pasolinianamente “simulacro”) di realtà oggetto anche, ma non solo, dell’opera. (14) La strategia che appaia figure argomentative della “presenza” e figure della “comunione” crea un filo diretto tra l’autobiografismo stanato nella trilogia sveviana e l’esperienza dell’uomo in generale: « Zeno invece sente la propria autobiografia a quel snodo che tutti sentiamo le nostre, dall’interno [...] ». (15)

Il coinvolgimento si fa più avvolgente. nei punti nevralgici dell’argomentazione, quando il dito cade sulla piaga della partecipazione contraddittoria di Svevo allo psichismo dei tre protagonisti:

Somiglia alla lucidità disperata, anche se corretta da un tenero desiderio di assolverci, con che noi avvertiamo le nostre manchevolezze segrete: somiglia pure al contegno che assumiamo nel trovarci a tu per tu col parente povero, che si raggomitola, umiliato insieme e caparbio, nel rovescio della nostra persona visibile [...] (p. 66, miei i corsivi).

La potenzialità dialogica, sottesa a ogni tipo di comunicazione scritta, ma raramente usata dalla critica come strategia di consenso manifesta, conferisce al giudizio di valore un simulacro di giudizio di fatto, finalizzato alla tesi, tenuta sì in serbo per le ultime pagine, ma prima e principale quanto a importo valutativo.

Quando il protagonista-tipo di Svevo finalmente sovrapporrà il proprio profilo ai connotati dell’individuo psicologico di Weininger, il reiterato artificio di presentazione con il noi trasformerà l’agnizione di lettura firmata Giacomo Debenedetti in un’intima e ineludibile esperienza intersoggettiva.

L’ultimo e davvero definitivo colpo di scena, infatti, vede rarefarsi la nervatura degli argomenti logici e svilupparsi una lunga analogia che fa appello all’esperienza, alle emozioni, alla discesa alle Madri (alle letture weiningeriane?) di un universale umano:

Dietro il ritratto morale del personaggio di Svevo, par che occhieggi un’impressionante rassomiglianza. Come per una di quelle ombre trascorrenti che quasi non hanno un dove, o di quei sorrisi in cui una bocca si piega in una increspatura fuggitiva e indimenticabile, come per uno di quei nonnulla che ci fanno ravvisare in un volto nuovo un’aria di famiglia, ci sembra di veder vagare attraverso i tratti di questo personaggio delle sembianze conosciute. Ritroviamo, accennati, i segni fisionomici di quell’astratto individuo psicologico, che per essere astratto non è meno cocente e vivo, delineato da Otto Weininger in Sesso e Carattere, sotto il nome di “ebreo”. (p. 81)

Proprio come accade nei racconti, il senso complessivo dell’avventura ermeneutica viene illuminato dal finale del saggio, dove il noi maiestatico si riaffaccia, ma solo per dichiarare la solidarietà del lettore professionista con l’inclusivo plurale degli altri, non professionisti: « [...] questa volta crediamo che la nostra insoddisfazione coincida con l’esitanza, non ancora superata, del più grande pubblico ad accogliere Svevo » (p. 90).

Che poi Debenedetti non sia stato buon profeta nel deprimere la fortuna a venire di Svevo non importa. La sua voce, abbia o non abbia davvero ragione, continua a balzare viva e amica dalla pagina, perché mima l’oralità del dialogo guidato, in presenza, tra oratore e pubblico. Forse anche per ciò possiamo concludere, con le parole di Montale., che « leggendolo non ci avviene mai di dargli ragione o torto. Sentiamo che a suo modo egli ha sempre ragione ».


NOTE
1. G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1971; cito dall’edizione 1976, p. 538 (d’ora in avanti: RN). La Lettera a Carocci…, in data aprile 1929, è posta
immediatamente dopo Svevo e Schmitz nei Saggi critici. Nuova serie, O.E.T., Roma, Edizioni del Secolo, 1945, poi in Opere di C.D., II, a cura di C. Garboli: Saggi critici, Seconda serie, Milano, Il Saggiatore, 1971, da cui si cita.
2. O. Cecchi, Incontri con Debenedetti, Padova, Marsilio, 1971, p. 20.
3. G. Debenedetti. Lettere di Umberto Saba, in “Nuovi Argomenti”, n. 41, novembre-dicembre 1959, pp. 1-32, a p. 24.
4. Critica ed autobiografia, in Saggi critici. Prima serie, Edizioni di Solaria, 1939. ora in Opere, I, a cura di C. Carboli, Milano, Il Saggiatore, 1969, p. 280.
5. Si vedano, rispettivamente, la recensione ai Contemporanei di Ravegnani nei Saggi critici. Seconda serie, cit., p. 121 e A proposito di “Intermezzo”, in “L’Approdo letterario”, XIII, n. 39 (n.s.), luglio-settembre 1967, pp. 5-18.
6. M. Lavagetto, Il critico sulle tracce di Orfeo, in “Paragone”, n. 208 giugno 1967. pp. 114-129; P.P. Pasolini, Introduzione a G. Debenedetti, Poesia del Novecento, Milano, Garzanti, 1974; E. Sanguineti, Cauto omaggio a G. Debenedetti, in “Aut Aut”, VI (1956). poi in Id., Tra liberty e crepuscolarismo, Milano, Mursia, 1961.
7. Per la nozione di avantesto cfr. M. Corti, Principi della comunicazione letteraria, Milano. Bompiani, 1976, p. 98 sgg.
8. Debenedetti legge e cita da Una vita, Vram, 1893 [ma 1892], p. 400; Senilità, Vram, 1898, p. 258; La coscienza di Zeno, Cappelli. 1923, p. 519.
9. In Varianti e altra linguistica, Torino. Einaudi, 1970, p. 557. Soprattutto sulla lingua di Contini verte il lavoro di P. Sgrilli, Influsso delle lingue speciali sul lessico della critica letteraria. in Aa. Vv., Italiano d’oggi. Lingua non letteraria e lingue speciali. Trieste. Lint, 1974.
10. Carteggio Svevo-Montale, a cura cit C. Zampa, Milano, Mondadori, 1976, p. 39.
11. C. Contini, Una parola per Giacomo Debenedetti, in “L’Approdo letterario”, n. 39, cit., poi in Giacomo Debenedetti, a cura di C. Garboli, Milano, Il Saggiature, 1968. pp. 102-104.
12. La lettera, inedita, si trova tra le carte di Saba del Fondo Manoscritti pavese. Solo il passo “metodologico” è citato da A. Stara, Giacomo Debenedetti: lettere a Umberto Saba 1946-1954, in “La Rassegna della Letteratura italiana”, a. 8°, s. VIII. maggio-dicembre 1985, a p. 391.
13. E. Benveniste, Problemi di linguistica generale, Milano, II Saggiatore, 1971. pp. 269-281. Utile applicazione delle relazioni di persona, secondo la teoria di Benveniste, alla scrittura più “egocentrica” di Renato Serra è nell’ottimo lavoro di B. Garavelli Mortara, Alius et idem. Le “scritture” di Serra, in “Inventario’ , n.s., n. 4, gennaio-aprile 1982, pp. 99-108.
14.  H. Grosser, La critica come colloquio. Appunti sullo stile di G. Debenedetti, in “Italianistica”, a. X, n. 3, settembre-dicembre 1981, pp. 420-432.
15.  Per la nozione di figure della presenza e della comunione, come per altri spunti tra retorica e argomentazione, cfr. C. Perelman, L. Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione, Torino, Einaudi, 1966, parte III.