Qualche considerazioni su Giacomo Debenedetti e l’ebraismo
di Alberto Cavaglion
Devo, per forza di cose, incominciare con una testimonianza personale. Quando, nel 1982, pubblicai il mio libretto sulla fortuna di Weininger in Italia ricevetti da Londra, da Arnaldo Momigliano (lo storico dell’antichità scomparso nel 1987) una lettera molto gentile, ma anche piena di appunti e di osservazioni critiche. Fra le altre, una mi colpì: Momigliano riteneva che il mio capitolo su Giacomo Debenedetti (1) fosse troppo severo, non già contro Weininger (come Momigliano riteneva fosse giusto), ma anche contro lo stesso Debenedetti. Lì per lì non riuscii a capire le ragioni di quell’osservazione. A me, studente appena laureato e alle prime armi, aveva in effetti suscitato qualche perplessità vedere un critico raffinato e smaliziato come Debenedetti cadere anche lui nel tranello della filosofia weiningeriana; proprio non mi riuscivo a capacitare del fatto che Debenedetti attribuisse al povero Svevo la colpa di aver dato nomi non ebraici a personaggi nevroticamente ebrei. Con Cesare Cases ero convinto, e lo sono ancora adesso, della veridicità dell’assioma:
Non si vede perché uno non possa chiamarsi Zeno Cosini pur avendo un’irrequietezza ebraica, poiché molti ebrei saranno irrequieti, ma non tutti gli irrequieti sono ebrei. (2)
C’era anche qualcosa di più. Mi ero chiesto: perché Debenedetti non aveva concesso a Svevo le attenuanti generiche che, più tardi, in Otto ebrei, riconoscerà a se stesso in una pagina che a me sembra fra le più belle sull’ebraismo italiano contemporaneo:
Sentirsi ebrei sarà un sentir rinascere dal fondo – nelle ore di più geloso raccoglimento, ore quasi inconfessabili tanto sono intime – vecchie cantilene sinagogali, udite ai tempi dell’infanzia nella pigra monotonia di grevi crepuscoli, in una luce di ceri stanchi che tremava sulla berretta del cantore, solo in piedi, laggiù sul tabernacolo deserto? (3)
Mi era venuto spontaneo chiedermi: perché Debenedetti dava per scontato questo tipo di approccio all’ebraismo solo per sé e non anche per Svevo? Non sarebbe stato più leale riconoscere che, forse, “nelle ore di più geloso raccoglimento”, anche a Svevo fosse dato riascoltare melodie sinagogali udite nell’infanzia, senza poi essere costretto a parlarne nei suoi libri? E d’altra parte, letti i primi esercizi narrativi di Debenedetti, da Amedeo a Suor Virginia, la situazione, dal punto di vista ebraico, non mi sembrava affatto diversa rispetto alla Coscienza.
In altre parole se i critici, per Debenedetti, su suo stesso consiglio, hanno evocato la categoria della “dissimulazione par bon ton ” (4), perché non chiamare in causa la stessa categoria anche per Svevo, il quale, come si sa, anziché appellarsi al piemontesissimo riserbo (« Che cosa sia l’ebraismo » , si legge sempre in Otto ebrei, « è questione da non venirne così facilmente a capo. In ogni caso si tratta di faccenda di stretta intimità ») molto più ironicamente e svevianamente preferì sbrigare la questione dicendo che sentirsi ebrei è una faccenda “complicata”, punto e basta?
Le risposte che avevo cercato di dare nel mio libro, secondo Arnaldo Momigliano, erano appena sufficienti. C’era indubbiamente in azione la componente dello judische Selbsthass, dell’odio di sé ebraico, dell’antisemitismo semita: un continente fino ad allora sconosciuto, la cui estensione era possibile misurare calcolando l’estensione della fama italiana di Weininger (da Debenedetti a Svevo, oltre che a Saba). La spiegazione, però, non era sufficiente.
In una successiva conversazione, Arnaldo Momigliano (nato nel 1908, dunque di sette anni più giovane di Debenedetti) mi disse che qualunque discorso serio sull’ebraismo di Debenedetti avrebbe dovuto tener conto del punto di partenza. Non si poteva, a suo giudizio, tracciare una completa analisi dell’opera del critico piemontese senza fare ricorso ai suoi interessi giovanili. Ora, il riferimento di Momigliano era proprio alle cinque conferenze sui profeti preparate negli anni Venti: cinque conferenze, di cui ha recentemente parlato, per la prima volta, in un suo saggio di qualche anno fa, Rosita Tordi. Grazie al saggio della Tordi è noto il veto di Saba, che impedì che quelle conferenze fossero lette a Trieste (la componente di Selbsthass, a giudicare dai brani citati dalla Tordi, in Saba, fu allora predominante). (5) Meno noto è il particolare che rammentava Arnaldo Momigliano e che riporto qui, in questa occasione, giustificando in tal modo la mia apertura autobiografica. Quelle conferenze sui profeti invano proposte a Saba furono invece lette a Torino, dove nessun poeta locale osò mettere i bastoni fra le ruote. Anzi, a giudicare dalla vivezza del ricordo di Momigliano, si deve aggiungere che quelle conferenze larga eco suscitarono nella gioventù non soltanto ebraica del tempo. Esse furono verosimilmente lette alla Società di Cultura nella seconda metà degli anni Venti. E se per una cosa il ventenne Debenedetti incominciò ad essere famoso entro la cerchia degli amici, non fu, in prima istanza, come di solito si crede, per merito della sua pionieristica lettura di Proust, bensì per la sua precoce attenzione ad Isaia.
Quando Debenedetti invano tentava di persuadere Saba, correva l’anno 1924. Arnaldo Momigliano stava appena affacciandosi alla vita universitaria (la sua tesi di laurea su Tucidide, con Gaetano De Sanctis, verrà discussa nel 1929). Dunque se è vero che, pur con alcune intermittenze, Momigliano non trascurò mai lo studio del profetismo ebraico ed anzi, negli ultimi anni della sua vita, tornò ad occuparsi degli oracoli sibillini e scrisse un saggio assai famoso su Profezia e storiografia, (6) vien da chiedersi se per caso, con Debenedetti, non sia il caso di incominciare a mettersi sulle tracce di una via “profetica” alla critica letteraria e se per caso non sia arrivato il momento di parlare esplicitamente di Profezia e letteratura.
Non appena il testo delle cinque conferenze sarà, come si spera, reso noto, l’intera opera di Debenedetti potrà apparire sotto nuova luce; ci si potrà chiedere se per caso l’archetipo di Orfeo come simbolo par excellence del critico letterario non sia in realtà un travestimento (par bon ton?) di un più arcaico archetipo: quello profetico. Il capolavoro della maturità, 16 ottobre 1943, troverebbe una sua più profonda ragion d’essere, anteriore ad Amedeo; così Otto ebrei si spiegherebbe meglio tenendo conto di un precedente così illustre. Per non dire della postuma riabilitazione di cui potrebbe godere il personaggio Zeno Cosini: davanti a una così franca prova d’esordio del suo più arcigno censore, Zeno sarebbe libero di revocare “lo sciopero del personaggio” a suo tempo annunciato dallo stesso Debenedetti. In assenza dei testi, comunque, converrà fermarci qui e non indugiare in altre illazioni. Ci limiteremo pertanto a ribadire il puro dato cronachistico, lasciando ad altra sede il compito di andare oltre e di ricostruire, per intero, il quadro del discorso. Ciò che è sicuro è che Debenedetti non si limitò a prendere qualche appunto, ma preparò vere conferenze che lesse a Torino e discusse con amici di poco più giovani di lui, come Momigliano. (7)
Qualcosa di più, invece, si deve dire sulla diffusione del “profetismo” nella cultura italiana degli anni Venti. Non esiste uno studio specifico, ma una cosa balza subito agli occhi. L’interesse per il profetismo nasceva da motivazioni prima di tutto politiche. Mai come in quegli anni tormentati del dopoguerra la cultura italiana si dimostrò ricettiva verso tali tematiche. È vero che dei “profeti” dell’idea repubblicana già aveva parlato, in tono assai poco oracolare, Arcangelo Ghisleri, in un libro del 1898 la cui influenza su Salvemini e altri giovani democratici fu notevole. D’altra parte l’arca semantica stessa del termine “profetismo” ha avuto per tutto il secolo un’imprevedibile estensione. Si pensi soprattutto alla cultura del primo socialismo riformista, al modo con cui sulle riviste turatiane si presentavano i precursori del socialismo (Platone, Bruno, Tommaso Moro, Fra’ Dolcino). Di loro si parlava come di “patriarchi del socialismo` o, più sovente, di “profeti del socialismo”.
Di profetismo in senso stretto, con metodo e rigore, s’iniziò a parlare solo dopo la guerra e in ambienti protestanti. Ma le implicazioni politiche erano sempre al centro dell’attenzione. Grande scalpore avevano suscitato, non solo negli ambienti accademici, gli articoli su Mazzini e Gioberti che Giovanni Gentile aveva pubblicato nel 1919 sulla rivista “Politica” per poi raccoglierli in un volume dal titolo provocatorio I profeti del Risorgimento. La “profezia” mazziniana e giobertiana di una nuova Italia, scriveva Gentile nella premessa al volume (1923), non si può dire che si sia compiuta con Vittorio Veneto: spetta a nuove forze, spetta cioè sostanzialmente al fascismo, completare l’opera. Contro Gentile insorsero repubblicani, socialisti, studiosi di Risorgimento (Zuccarini, Zanotti-Bianco, Salvemini, lo stesso Ghisleri). Nel 1920, inaugurandosi l’anno accademico dell’Università di Roma, Giorgio Levi Della Vida, illustre semitista (fra i pochi docenti che, nel 1931, rifiuteranno il giuramento), pensò di dare una risposta a Gentile con una prolusione, di cui Levi Della Vida stesso parla nella sua autobiografia. Il titolo di quella prolusione era proprio La politica dei profeti d’Israele (non fu mai pubblicata). Della Vida così ricorda:
Osservavo in quella prolusione come la maggior parte dei profeti (Geremia è l’eccezione che conferma la regola) avessero fieramente redarguito i re d’Israele e di Giuda che seguivano una politica di appeasement verso i grandi imperi loro vicini, l’Assiria anzitutto e poi anche l’Egitto, mentre la volontà di Iahvè (ossia, in termini moderni, il mito del nazionalismo) esigeva che si sfidassero apertamente senza concessioni né transazioni. E mostravo come, date le circostanze e i rapporti di potenza, la politica di pace e di accordi era la sola possibile, mentre il bellicismo intransigente avrebbe portato la nazione alla catastrofe, come di fatto la portò ogni qual volta l’entusiasmo dei profeti riuscì a prevalere sulla cautela dei monarchi; concludendo che noi posteri, mentre ammiriamo nei profeti l’intensità del sentimento religioso e l’alto valore estetico del linguaggio poetico, dobbiamo giudicarli severamente dal punto di vista della politica concreta. (8)
Ad ascoltare Della Vida c’era lo stesso Gentile cui erano diretti gli accenni al “bellicismo intransigente” e al “mito del nazionalismo”. Ma Della Vida era uno studioso tanto rigoroso del fenomeno religioso quanto distaccato e imparziale. Altre furono le risposte date in quegli stessi anni al problema del “profetismo”. Fra queste, quella di Debenedetti. Egli certo non sarà rimasto insensibile all’ “alto valore estetico del linguaggio poetico” dei Profeti che, come si è visto, anche Della Vida riconosceva.
Di profetismo in senso stretto, si diceva, i primi a parlarne furono i protestanti: valdesi, battisti, evangelici isolati. Essi univano all’esigenza di dare una risposta a Gentile parimenti severa, una forte componente di religione intimamente vissuta. Le riviste “Bilychnis” prima, e poi “Conscientia” di Gangale (cui collaborò Gobetti: un periodico molto letto e conosciuto anche a Torino), aprirono le loro pagine a una seria discussione che aveva sullo sfondo il profetismo nazionalisticamente inteso, ma, in realtà, ormai, guardava più avanti e non si limitava al solo motivo politico contingente (la politica di appeasement). Questo fervore d’iniziative coinvolgeva insieme ebrei e cattolici aperti al modernismo, tutti tesi alla ricerca di un terreno comune di ricerca. Il profetismo poteva rappresentare un nuovo modo di porsi di fronte al proprio ebraismo: un modo più attuale e moderno, adatto alla generazione che s’affacciava alla vita pubblica e intellettuale dopo la tragedia del primo conflitto mondiale, un modo ricco, fra l’altro, di implicazioni estranee ai fondamenti dell’estetica idealistica.
Alcuni avveduti esponenti del modernismo e delle chiese evangeliche italiane, più o meno vicini a Buonaiuti, simpatizzanti socialisti ma critici nei confronti della leadership del partito (ancora troppo compromessa, secondo loro, con il positivismo) si erano radunati intorno alla redazione della rivista “Conscientia”. Alcuni (penso per esempio a Ugo Janni, a Ernesto Comba, a Vittorio Macchioro) fecero conoscere anche al pubblico italiano i monumenti della critica storica tedesca: Gunkel, Holscher, Duhm e poi il classico lavoro di K.H. Cornill, I profeti d’Israele, pubblicato in Germania nel lontano 1894 e finalmente tradotto in italiano, nella laterziana “Biblioteca di Cultura Moderna”, proprio nell’anno (1923) in cui Debenedetti iniziava a stendere i primi appunti per le cinque conferenze. Largamente discusso non solo negli ambienti ebraici, il libro di Cornill recava una stringata ma esauriente prefazione del maestro e cugino di Arnaldo Momigliano, Felice, professore di filosofia al Magistero femminile di Roma. (9) In ambito valdese, ma sempre nell’entourage dei collaboratori fissi di “Conscientia”, Ernesto Comba aveva dedicato un’ampia monografia ai Libri dei Profeti d’Israele (1924).
Al centro della storia d’Israele, da qualche anno a questa parte, scriveva Felice Momigliano su “Conscientia” (La perenne voce dei Profeti e Il messianismo ebraico dai Profeti a Marx), « non torreggia più Mosè sul Sinai, ma il coro dei profeti », uomini che hanno saputo « destare, flagellare, consolare il popolo ebraico negli ultimi due secoli dei due regni », durante la cattività di Babilonia, nel periodo del ritorno, e più tardi durante il dominio persiano e greco fino alla vigilia del cristianesimo.
Per i collaboratori della rivista “Conscientia” il merito dei profeti d’Israele consisteva nell’aver essi trasformato il mago, l’indovino; il delirante nell’uomo di Dio, nel giudice, nell’avvocato dei poveri, nell’apostolo di Giustizia. Secondo Cornill i profeti avevano saputo spiritualizzare, trasformare in pathos etico ciò che prima era semplicemente una brutale estasi primitiva. Ai canti, ai balli pagani di indemoniati, i profeti d’Israele sostituirono un cosciente e controllato entusiasmo per il diritto e per la giustizia. « I profeti – spiega Cornill – esprimono ed esaltano il divino che è nell’uomo, e dànno voce e parola alla coscienza morale. » Davanti ad ogni crisi sorge il profeta, « che non può tacere » . Geremia ed Ezechiele si ribellano all’idea di una responsabilità collettiva così come negano ogni consistenza all’idea di un nazionalismo ebraico. (10)
Ci sono elementi sufficienti per capire come mai in quegli anni il profetismo riuscisse ad aggregare così tanti giovani studiosi ebrei, più o meno simpatizzanti per la causa socialista ma non disposti ad abbandonare completamente il patrimonio spirituale dell’ebraismo: « L’importanza del profetismo - notava Felice Momigliano - consiste appunto nell’aver introdotto il nuovo principio di responsabilità personale e di averne fatta la base religiosa dell’umanità » . Egli concludeva: « La predicazione dei profeti proclama la morale autonoma » e consigliava di andare a cercare la citazione esatta di questo kantiano imperativo in un passo di Geremia: « In quei giorni più non si dirà: i padri hanno mangiato l’uva acerba e si sono allegati i denti ai figliuoli; ma chi peccherà nella propria iniquità perirà: chiunque mangerà uva acerba a lui i denti si allegheranno ». Era una forma precorritrice ell’Ego adsum qui feci. (11)
Si delinea in tali modo, per la piccola schiera di studiosi del profetismo facenti capo a “Conscientia”, il principio della volontà buona come base della morale e la conseguente aspirazione ad una forma di religione svuotata dai riti. Il profetismo, sostengono molti fra i collaboratori di Gangale, fonde insieme in un’unica intuizione l’unità di Dio con l’eticità di Dio, superando definitivamente il particolarismo del Dio nazionale.
Quanto ardua fosse la via d’affermazione di questi principi, all’interno dell’ebraismo ufficiale d’allora, è facile immaginare. Fu una battaglia condotta senza alcuna speranza di successo da pochi eccentrici e solitari come Felice Momigliano, ma gli effetti è verosimile siano giunti fino al giovane Debenedetti. Per quella generazione stanca di ritualismo, e assetata di eticità, il profetismo appariva come l’ultima trincea della propria ebraicità, da difendere a denti stretti davanti alle accuse dei tanti detrattori.
Il nuovo patto, di cui parlava Geremia, era la religione spirituale: una nuova alleanza, anche interconfessionale, da scrivere nel cuore degli uomini. II profetismo sostituiva così, nel regno di Dio, l’idea di umanità all’idea di nazione: « II Dio universale deve apparire come il Dio interno e presente in ogni anima d’uomo, senza veruna distinzione: la sua sede e il suo tempo non ha più nessuna determinazione speciale, perché non può trovar luogo che nei luoghi puri ».
Il profetismo diventava così, in Italia, all’inizio degli anni Venti, un’esigenza di tipo extra-temporale, un nuovo strumento di ricerca per affermare il kantiano regno dei fini e per opporsi alla grettezza degli ortodossi:
Tutti gli spasimanti del regno della giustizia, tutti gli scopritori dei nuovi valori etici, tutti gli animatori delle energie migliori che l’ortodossia sogguarda con occhio sospettoso come novatori pericolosi ed eretici e che costituiscono dei critici temibili delle dottrine cristallizzate e delle pratiche accettate e stabilite che si sono andate vuotando del loro contenuto vitale, si ritrovano nella via maestra tracciata dai profeti. (12)
Quanto di tutto ciò fosse presente nella mente di Debenedetti è arduo dire, con una conoscenza soltanto parziale dei testi. Tali comunque erano i suoi probabili interlocutori. Che poi queste riflessioni fossero condotte e rese esplicite mentre Gentile s’affannava a leggere “i profeti del Risorgimento” come precursori del fascismo e del mussolinismo è appena superfluo dire. Purificare il messaggio dei Profeti, darne una lettura scientifica e non soltanto apologetica, diventava negli anni Venti sostanzialmente un dovere civile e politico, se non per Giacomo Debenedetti certo per Della Vida e per l’intera redazione di “Conscientia” costretta dal regime a chiudere i battenti (Gangale era stato nel 1925 tra i firmatari del manifesto Croce). (13)
Se dalla storia del pensiero religioso nell’Italia degli anni Venti passiamo per un attimo ad analizzare gli scritti letterari di Debenedetti il discorso necessariamente si fa più difficile e imbarazzante. L’unico nome che, per assonanza tematica, viene subito in mente è quello di Carlo Michelstaedter, cui Debenedetti, su “Primo tempo”, dedicò un saggio dove forse sono presenti tracce di ciò che si è appena detto. Michelstaedter viene definito come « il simbolo oscuro dell’inespresso » e della sua fede si parla come di « una fede violenta, concitata e precipitosa senza trepidi o gaudiosi misteri ». Qualcosa del rinnovamento etico-religioso proposto dai lettori di Cornill e di “Conscientia” sembra permanere nelle frasi in cui Debenedetti spiega che il filosofo goriziano « viene da una gente per la quale ogni tradizione religiosa non suol più raccomandarsi ad altro che alle forme di culto, senza abitudini interiori che facciano rigermogliare il nudo dettame in un terreno di eticità ». (14) Sembra di ascoltare la voce di Cornill, o dei collaboratori di Gangale, quando cercavano di spiegare in termini kantiani il moralismo profetico.
Michelstaedter, dice Debenedetti, « non è un maestro ma un iniziatore che getta la sua saggezza mistica ed involuta e non fonda chiese e rifiuta le imitazioni ». (15) Che è parafrasi quasi letterale degli articoli citati sul profetismo, di un Felice Momigliano o di un Max Ascoli (collaboratore, quest’ultimo, anche di “Primo tempo”). (16)
Alla domanda: che cosa è rimasto, nella successiva produzione debenedettiana, della “saggezza mistica ed involuta” di Michelstaedter o degli “iniziatori” nemici delle chiese e dei culti, quasi impossibile è fornire una risposta che non sia allo stesso tempo superficiale o azzardata. Un non so che di rabdomantico, di impalpabile, non vi è dubbio, s’avverte comunque, anche a una sommaria lettura dei suoi saggi. Il procedimento analitico è spesso sorretto e guidato da un’intuizione, o da un’immagine, prima che da un ragionamento logico-deduttivo. L’importanza, del resto, delle metafore e dei simboli è vero che ha in Proust il suo evidente modello, ma non escluderei a priori la persistenza di certe memorie profetiche, siano esse le visioni di Isaia o le invettive di Geremia.
A partire dalla fine degli anni Venti, le reticenze, in fatto di esegesi vetero-testamentaria, sono pressoché totali. Se si esclude il citato saggio su Michelstaedter, in tutta la rimanente opera debenedettiana, il critico ci viene in soccorso una sola volta, se non sbaglio, e molti anni più tardi: nel finale di A proposito di “Intermezzo”. Ma la citazione testuale, in quel frangente, è da un passo del Pentateuco (la lotta di Giacobbe contro l’Angelo), non dai Profeti. (17)
Con uno sforzo, se non addirittura una forzatura, ci si potrebbe avventurare lungo l’unica pista che mi sembra praticabile: la cosiddetta Nekuia, un concetto assai caro a Debenedetti. È quasi un topos, con molte varianti. Ogni volta che Debenedetti parla di « regresso alla regione delle Madri » può darsi che si tratti, ancora una volta, di una duplice « dissimulazione par bon ton ». Dissimulazione prima psicoanalitica e poi, a maggior ragione, profetica.
È soltanto un’ipotesi, per quanto non priva di fascino. Ciò che il profetismo insegnava agli estimatori di Cornill e ai lettori di “Conscientia” era proprio l’importanza dell’introspezione, la centralità del viaggio all’interno di se stessi. Che Debenedetti abbia tentato una trasposizione letteraria e poetica di questo insegnamento è un’ipotesi rischiosa, ma, credo, non infondata se si tengono presenti almeno tre luoghi capitali della sua opera.
In primo luogo soffermerei l’attenzione sul saggio Personaggi e destino, là dove si parla dell’Odissea e si dice che Ulisse troverà la via giusta soltanto se saprà condurre a termine la discesa agli inferi, “la sgomentevole Nekuia”. Questa Nekuia, si potrebbe dire, parafrasando Debenedetti, è veramente il cardine della sua metodologia critica, il paradigma di un sistema (« Vorrei dire che da allora in poi ogni vero romanzo, ogni romanzo risolto a fondo, ha contenuto una sua Nekuia… »). I profeti di Cornill, si ricorderà, esortavano l’uomo (Debenedetti dice il poeta, il romanziere) a cercare il divino (Debenedetti dice il poetico) che è nell’uomo. (18)
In secondo luogo farei riferimento al finale della Probabile autobiografia di una generazione, un finale ormai diventato quasi proverbiale, ma che deve essere ricollegato al precedente concetto di Nekuia. Questa volta, si sa, il viaggio a ritroso lo compie non Ulisse ma Orfeo. Forse, sotto i nuovi panni di Orfeo, si nasconde non solo “il racconto” della scomparsa di Euridice, ma anche il racconto profetico della distruzione del Tempio e dell’esilio di Babilonia. (19)
Ciò risulta ancora più chiaro dal terzo e ultimo brano che si deve ricordare in proposito: un brano che è particolarmente significativo perché, per la prima e unica volta, Debenedetti riconosce la matrice inconsciamente profetica della sua idea di Nekuia. Si deve riaprire il saggio su Svevo e Schmitz e rileggere proprio la pagina contenente il confronto con Weininger, il quale, dice Debenedetti, si comporta come Ulisse, come Orfeo (o, diremmo noi, come Isaia) compiendo à rebours lo sgomentevole ma autobiografico viaggio nell’inconscio, « nel fondo delle proprie origini ebraiche, in una specie di oscura e sempiterna regione delle Madri ». (20)
NOTE
1. A. Cavaglion, Otto Weininger in Italia, Roma, Carucci. 1982; il cap. su Debenedetti è a p. 182 sgg.
2. C. Cases, Patrie lettere, Padova, Liviana, 1974, pp. 120-121 (il cenno a Debenedetti rimane anche nella seconda, ampliata edizione. Torino, Einaudi. 1987. p. 102).
3. Cito dall’edizione di 16 ottobre 1943 e Otto ebrei, a cura di O. Cecchi. Roma, Ed. Riuniti, 1978, p. 79.
4. L’espressione “dissimulazione par bon ton”, poi ripresa da altri critici, mi risulta essere stata per la prima volta formulata nella lettera del 18 aprile 1963 a Michel David cit. in La psicoanalisi nella cultura italiana, Torino, Boringhieri, 1970, p. 325. Una nuova edizione aggiornata è in corso di stampa presso Bollati-Boringhieri.
5. R. Tordi, De benedetti e Saba; a proposito di cinque conferenze sui profeti, in “Letteratura italiana contemporanea”, III, 7 (1982), pp. 73-78 oltre che nella relazione della Tordi a questo stesso convegno; la parte meno convincente del saggio della Tordi concerne l’improbabile influenza di Martin Buber: è vero che le prime opere di Buber furono proprio in quegli anni per la prima volta tradotte in italiano dalla benemerita casa editrice fiorentina Israel, ma è altrettanto vero che la diffusione di quei testi fu praticamente nulla (e di libri comunque si trattava non direttamente dedicati al profetismo). Quanto allo judische Selbsthass di Saba. le lettere citate dalla Tordi sono un documento che si commenta da sé, oltre che una testimonianza dell’assoluta “impoliticità” del poeta triestino, della sua sordità alle questioni più vive e vivaci della società del suo tempo: « Parlo malvolentieri dei Profeti, che ho l’idea (è una verità psicologica) che portino sfortuna. Erano brutti esseri e non so come e in che cosa posano affascinarti ».
6. II saggio di .A. Momigliano su Profezia e storiografia si può adesso leggere nella raccolta Pagine ebraiche, a cura di S. Berti. Torino, Einaudi, 1987, pp. 109-116. Su questi interessi dello storico si veda, da ultimo, l’ottimo contributo di I. Cervelli. Su alcuni aspetti della ricerca ebraistica di A. Momigliano, in “Studi storici”, luglio-agosto 1988. pp. 599-643. Ma sono da tener presenti anche i saggi di autori vari raccolti nel volante Omaggio a A. Momigliano. Pavia, Ed. di Athenaeum, 1989.
7. Nessuna traccia scritta si trova nel pur documentatissimo saggio sulla Società di Cultura contenuto in G. Bergami, Da Graf a Gobetti: 50 anni di cultura militante a Torino (1876-1925), Torino, Centro Studi Piemontesi, 1980, pp. 13-26. Per un quadro di insieme sulla Torino d’allora è d’obbligo il rinvio a C. Dionisotti, Ricordo di Arnaldo Momigliano, Bologna, Il Mulino, 1989.
8. G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, Vicenza, Neri Pozza, 1966, p. 215, da leggersi insieme alla rec. dello stesso Arnaldo Momigliano, “Rivista Storica Italiana”, 78, 1966, pp. 740-742, poi in A. Momigliano, Quarto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma, Ed. Storia e letter., 1969, pp. 663-665.
9. K.H. Cornill, I profeti d’Israele, pref. di Felice Momigliano. Bari, Laterza, 1923. Era questo uno di quei libri che dimostrava la estrema poliedricità della linea editoriale della casa editrice Laterza, secondo le giuste osservazioni di D. Coli, Croce, Latenza e la cultura europea, Bologna, Il Mulino, 1983. Fra le molte recensioni ai Profeti di Cornill sarà bene almeno segnalare quella del nipote di Claudio Treves, Antonello Gerbi, uscita sul periodico dello stesso Treves, “La Giustizia”, 21 ottobre 1923 (con titolo Profeti e pessimisti). Utili indicazioni sul clima culturale italiano di quegli anni, fra modernismo, socialismo e profetismo, si trovano nel Profilo di A. Gerbi di Piero Treves, uscito come introduzione a A. Gerbi, La disputa del Nuovo Mondo. Milano-Napoli, Ricciardi, 1983, pp. XXI-LXXII.
10. C.E. Cornill, I profeti cit., p. 5.
11. F. Momigliano, Prefazione cit., p. IX. Su Felice Momigliano, per ulteriori indicazioni bio-bibliografiche, mi permetto di rinviare al mio libro F. Momigliano (1866-1924), Napoli-Bologna, Istituto italiano per gli studi storici – Il Mulino. 1988. Gli articoli citati di Momigliano su “Conscientia” sono rispettivamente nei numeri del 15 luglio 1922 e 29 dicembre 1923.
12. F. Momigliano, Prefazione cit., p. VIII.
13. Su Gangale e il gruppo di “Conscientia” cfr. P. Sanfilippo, Gangale araldo del nuovo protestantesimo italiano, Genova, Tip. Lanterna, 1981; C. Pogliano, P. Gobetti e l’ideologia dell’assenza, Bari. De Donato, 1976, pp. 87-128; J.P. Viallet, La Chiesa Valdese di fronte allo stato fascista (1922-1945, Torino, Claudiana, 1985, pp. 264-268; R. Cerrato, Il dibattito sulla “mancata riforma”, in “Religioni e Società”, 8. dicembre 1989, p. 68 sgg. Una riedizione del capolavoro di G. Gangale, Revival, è prevista per il 1990 da Sellerio.
14. Cito dalla riedizione della rivista curata da F. Contorbia, “Primo tempo” 1922-1923. Milano, Celuc, 1972, p. 243.
15. Ibid.
16. Di Max Ascoli, si veda la “postilla” ad un articolo di Buonaiuti su Cristianesimo e arte, sul primo fascicolo della rivista (pp. 95-99 dell’ed. Contorbia).
17. Cito da G. Debenedetti, Saggi, a cura di F. Contorbia, Milano, Oscar Mondadori, 1982, pp. 62-63. Sempre dal Pentateuco, questa volta dall’Esodo, cfr. la citazione su Gerusalemme nella bella memoria autobiografica resa a P. Pancrazi. La piccola patria. Cronache della guerra in un comune toscano, Firenze, Le Monnier, 1976, pp. 135-140, ora ripubblicata in Le interdizioni del Duce. A 50 anni dalle leggi razziali in Italia (1938-1988), a cura di G.P. Romagnani e A. Cavaglion, Torino, Albert Meynier, 1988, pp. 324-330 (cfr., in specie, p. 328).
18. G. Debenedetti, Saggi cit.. pp. 25-27.
19. Ibid., pp. 48-49.
20. G. Debenedetti., Saggi cit., p. 248. II discorso sul profetismo di Debenedetti penso possa fermarsi qui, ad un’ipotetica interpretazione della Nekuia, sia nella versione omerica e “sgomentevole” sia nella versione edipicamente rasserenatrice del ritorno alla « sempiterna regione delle Madri » (« nelle ore quasi inconfessabili tanto sono intime », « nella pigra monotonia di grevi crepuscoli » ). Qualsiasi altra ipotesi penso sarebbe azzardata. In un mio recente articolo, Argon e la cultura ebraica piemontese, in “Belfagor”, XLIII, 5 (1988), pp. 541-562 ho cercato di fissare alcune coordinate fondamentali dell’ebraismo subalpino, prendendo spunto dagli esordi di Primo Levi con qualche cenno anche al tardo-positivismo della Torino d’inizio secolo: quella stessa Torino che condusse Debenedetti al Politecnico prima che alla facoltà di belle lettere. Chiara mi sembra l’estraneità del critico biellese rispetto al mondo fatato e quasi fantascientifico di Argon (Sistema periodico). Il weiningeriano “odio di sé” si coniugava in Debenedetti con un altrettanto profondo sentimento di anti-piemontesità. Di qui, forse, rispetto ad altri correligionari, una maggiore velocità nell’emanciparsi dai principi dell’estetica crociana, una maggior disponibilità verso le novità straniere, la scoperta della psicoanalisi e del cinema: tutte esperienze impensabili nella formazione di altri protagonisti di Argon: penso per esempio ancora al padre di Primo Levi, alla famiglia Artom (Emanuele, Ennio, Emilio), alla famiglia di Benvenuto Terracini o di Natalia Ginzburg. Mentalità scientifica, passione dialettologia e alpinismo mi sono sembrate tre prerogative della cultura ebraica torinese; pochi, pochissimi sono i riscontri nell’opera di Debenedetti (se si esclude quella testimonianza su Proust, letto per la prima volta nei boschi di Champoluc!): nulla vi è sui dialetti, rari i paragoni con l’universo delle scienze esatte, fatta eccezione per un ricordo affidato ancora al saggio A proposito di “Intermezzo” (Saggi cit., p. 53): « Mi rimproveravo di coltivare le “matematiche severe” con amore stranamente estetico. I nomi di certi enti algebrici o geometrici, come per esempio “wronskiano dei coefficienti” o “Lemniscata di Bernoulli” mi rapivano proprio per il loro valore magico e incantatorio di certi eventi verbali ». Che è dichiarazione quasi identica a talune espressioni del Primo Levi di Altrui mestiere e del Sistema periodico. « Ricordo anzi – diceva Debenedetti – che Gobetti (e più tardi anche Thovez) mi contestavano l’astrattezza di voler ridurre tutto a schemi, operazioni di ordine matematizzante, di voler fare della critica un algoritmo, risolvere i discorsi attraverso una serie di trasformazioni, di formule fino al quod erat demonstrandum ».