di Walter Pedullà
L’attualità di Debenedetti? Certamente non è quella di un metodo critico, una psicoanalisi manovrata con un’audacia e insieme con una sottigliezza che gli aprivano esiti unici, da geniale eretico. Preferì sempre cercare le « anime » da cui nascevano i testi ma di fatto egli fu seguace ugualmente cauto di diverse metodologie d’indagine e verso nessuna ortodosso. Il suo eclettismo denuncia anzi la diffidenza fondamentale nei confronti di un metodo autoritario.
Suppergiù la stessa prudenza, se non ostilità, che egli manifestò verso le poetiche nelle quali temeva la normativa delle ideologie, e di altra sclerosi razionalistica. Anche su questo egli era in anticipo sul nostro periodo, uscito dalla sbornia dei metodi critici succedutisi nel secondo dopoguerra e approdato alla disponibilità così felicemente anarchica e così tormentosamente orfana della critica d’oggi. Dallo status di « orfano » Debenedetti ricavò saggi che ora lo fanno per tutti uno dei « padri » della saggistica letteraria del ’900.
La sua libertà rispetto ai metodi ha liberato nel critico « il lettore », una condizione privilegiata già dallo stesso Debenedetti nelle lezioni di De Sanctis su Leopardi. Ora, se il « lettore » è sempre più fecondo del teorico nelle tre serie di Saggi critici e in Intermezzo, tanto più è il « lettore » che ha « detto » i corsi universitari messinesi e romanzi su Verga, Pascal, Tommaseo, la poesia e il romanzo del Novecento ad aver ottenuto i risultati più cospicui e felici. Le tesi finali sono tutte, o quasi, dentro i saggi postumi de Il personaggio – uomo: che sono anch’essi dentro la formula del « racconto critico » meglio di quanto non facciano le lezioni raccolte in volume, per le quali avevo azzardato la variante di « melodramma critico ». Essa funziona in verità abbastanza anche per la saggistica « scritta » di Debenedetti, in cui sono così numerose le « romanze » (ad esempio i saggi squillanti come « Personaggio e destino » e « Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo »).
Si ricordi comunque che più di Verdi amava il dramma di Wagner, che Debenedetti collocava al centro di un filone iniziato da Schopenhauer e proseguito da Nietzsche e Freud lungo il quale avrebbe preso corpo la strategia letteraria cara a Debenedetti, nonché a Savinio: la forma dell’informe, con cui egli ha messo a fuoco nella saggistica « orale » del Romanzo del Novecento l’« occhio sinistro » (il suo preferito, quello delle visioni) e l’« occhio destro » (quello della vista sulla realtà esterna).
Per il critico era indispensabile saper mettere in musica, o meglio, in scrittura le sue analisi, che sono profonde anche quando non frequenta l’inconscio. Il « lettore » che affonda nelle strutture delle essenze e delle matrici del testo riaffiora in superficie come grande scrittore. La sua saggistica è così vera che è una bellezza.
Lo sanno tutti che sono d’attualità i critici-scrittori.
Debenedetti è il maggiore di essi.