di Enzo Golino
Tentante e percettivo, sempre al limite dell’eresia interdisciplinare, un critico come Giacomo Debenedetti sollecita i lettori, anzi li provoca, a un discorso sulle radici del suo metodo, una sorta di fenomenologia congetturale che tra i suoi estimatori annovera innanzitutto Gianfranco Contini, maestro di strategie critiche e filologiche. Lettori d’eccezione come Eugenio Montale e Pier Paolo Pasolini, in due occasioni editoriali, hanno dato preziosi contributi al discorso sul metodo di Debenedetti.
Il poeta degli Ossi di seppia, nella presentazione al volume postumo Il romanzo del Novecento (Garzanti 1971) che raccoglie i quaderni dei corsi tenuti all’università di Roma dal 1960 al 1966, giustamente afferma che nella critica di Debenedetti « è la psicologia che vince la partita », ma avverte dopo aver letto gli inediti: « Ora si può parlare anche di sociopsicologia ». In effetti una insistente vigilanza sociologica presiede all’impresa di una storia che tenta di elaborare al suo interno una teoria della produzione letteraria individuando alcune leggi di produzione del romanzo; e mentre affronta i testi degli scrittori, richiama instancabilmente le strutture mentali dell’epoca in cui quei testi realizzavano una svolta clamorosa rispetto ai canoni istituzionali o più accreditati.
Sebbene gli accenni al pubblico dei lettori siano appena sporadici, o del tutto impliciti, Debenedetti ricostruisce l’orizzonte di attese culturali che circonda l’opera e la illumina di significati armonicamente articolati con l’esperienza in atto in quel momento storico.
Ma a Debenedetti, alieno da storicismi di maniera, interessa l’accertamento della storia dentro l’opera d’arte piuttosto che situare l’opera’ d’arte nella storia. Traspare qui il suo non effimero legame con De Sanctis riscontrabile soprattutto, alla luce di aggiornate letture (Gianni Scalia), del sistema critico desanctisiano, nella « mobile teorizzazione » e nella « dialettica strutturale » che costituiscono l’impulso dinamico della sua ricerca.
Molto è stato detto della abilità di Debenedetti di inserire la letteratura in un più ampio discorso culturale, ma in Il romanzo del Novecento con un piglio di novità metodologica mai prima acquisito, Debenedetti affianca la serie letteraria e la serie scientifica costruendo un quadro mosso e dialettico dei reciproci rapporti, il modello di uno scambio che arricchisce tutto il campo del sapere. Tuttavia a proposito del critico Debenedetti, l’accento è caduto quasi sempre sul degustatore in avanscoperta di preziose esperienze estetiche, sul lato per così dire proustiano della sua formazione, lasciando appena intravedere, o soffocando del tutto, la figura dell’epistemologo che pure, dietro le sembianze del letterato, dovrebbe correggere le tendenze dei critici a risolvere « la condanna alla letteratura » di Debenedetti in squisito estetismo. Certo, è la Letteratura il terreno d’azione di Debenedetti, ma sarebbe un limite colpevole costringerlo ad essa. Il romanzo del Novecento dimostra che l’abito esclusivamente letterario di Debenedetti è una visione troppo parziale, generica, da integrare con altri capitali momenti della sua vicenda intellettuale per meglio definire il profilo del Debenedetti epistemologo.
Ed ecco un altro lettore d’eccezione, Pier Paolo Pasolini, intervenire sul metodo di Debenedetti nello scritto premesso a Poesia italiana del Novecento (Garzanti 1974), ancora un volume postumo che raccoglie i quaderni del corso di lezioni all’università di Roma, anno Accademico 1958-1959. Pasolini vede nella critica debenedettiana una « totalità di lettura senza specializzazione » e afferma che Debenedetti « Non è mai riuscito a teorizzare il sumo modo di leggere », mirava al traguardo della « inesauribilità della ricerca… realizzata attraverso un metodo non metodico ». A causa dell’oggettiva mancanza di un metodo, conclude Pasolini, le analisi di Debenedetti sono pervase « di un invincibile senso di colpa: eppure egli si è sempre rifiutato, con tutto se stesso, di commettere la colpa di adottare un metodo ». È vero, ma non è tutto, e il suggerimento di Pasolini invita ad andare ancora più in là: Debenedetti non poteva adottare un metodo perché li aveva adottati tutti. Quante parole-spia nei suoi scritti rivelano confidenze effettive o inconsce profezie di un esteso ventaglio di strumenti del sapere critico…
Figura di transizione, cerniera obbligata di passaggio dalla tradizione alla modernità, in Debenedetti si annodavano in una sintesi originale di sofferta e consapevole autonomia il patrimonio del passato e le tensioni verso il futuro: ecco forse un altro motivo che gli impediva di adottare un metodo poiché il passato lo sospingeva nel futuro, il futuro nel passato. Debenedetti scelse di puntare unicamente sulla propria intelligenza quasi ostentando nei suoi scritti il prezzo di una libertà intellettuale, e quindi metodologica, dispendiosissima e faticosa, la sregolatezza inventiva e la fantasia culturale temute dai garanti dell’ordine accademico, dai tutori delle cittadelle universitarie.
Un metodo è come il proverbiale punto d’appoggio di Archimede, chi lo possiede muove la terra e il cielo. Debenedetti ha voluto fare a meno di questa facoltà: ne avvertiva i vantaggi, li ha rifiutati; ha patito le conseguenze del rifiuto ma ha vinto ugualmente, lasciando che tutti i metodi possibili si rispecchiassero nel solitario e assoluto, timido e orgoglioso meccanismo della sua intelligenza al lavoro. Araldo di una virtualità metodologica infinita, con la strenua e non regressiva fedeltà al simulacro sue esplorazioni Debenedetti ha suggerito i fondamenti di una antropologia letteraria che dovrà pur trovare i suoi legittimi eredi.
Quando, tra il 1961, é il 1965; Vittorini elaborava alcuni pensieri sullo sperimentalismo probabilistico e congetturale in letteratura (pubblicati postumi nel volume Le due tensioni, (Il Saggiatore 1967), un critico da lui molto diverso per formazione e cultura, Giacomo Debenedetti, doveva rimuginare più o meno idee simili. Se ne trovano tracce in quel saggio capitale che è Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo, pubblicato sulla rivista Paragone (n. 190, dicembre, 1965) e poi raccolto, insieme ad altri scritti, nel volume Il personaggio-uomo (Il Saggiatore 1970). Vittorini e Debenedetti percepiscono all’unisono l’arretratezza conoscitiva del discorso letterario rispetto al discorso scientifico: le notizie nuove sull’uomo, sull’universo, vengono più dalla fisica che dal romanzo o dalla poesia. Eppure, secondo Debenedetti, la narrativa dell’anti-personaggio presenta molte analogie con la fisica delle particelle: la frantumazione del personaggio corrisponde insomma alla frantumazione dell’atomo. E con più ottimismo rispetto a Vittorini, salvando quindi la faccia dello scrittore, Debenedetti sostiene « che oggi la narrativa e la scienza sembrano trasmettere, con due codici diversi, lo stesso tipo di informazioni su ciò che maggiormente interessa la natura dell’uomo e del mondo ». Nel maneggiare analogie fra scienza e letteratura forse Debenedetti era più a suo agio a causa degli studi giovanili: infatti, prima di laurearsi in Giurisprudenza e in Lettere, aveva superato a pieni volti tutti gli esami del biennio al Politecnico di Torino. Anche in seguito, durante la carriera di critico, saggista e docente universitario, di letteratura, non trascurò di guardare a ciò che accadeva nel campo delle scienze. Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo è un momento tipico, forse il più assoluto, dell’eresia interdisciplinare di Debenedetti, che in questo senso ha nell’autodidatta Vittorini un acceso consanguineo. Le due tensioni, frammenti di un viaggio intellettuale incompiuto, suscita un’eco compiuta in un passo significativo di un altro saggio debenedettiano: Un punto d’intesa nel romanzo moderno’ pubblicato sulla rivista L’Europa letteraria (luglio-dicembre 1963) e poi nel’ volume dove è riprodotto Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo, saggio di cui anticipa alcuni temi. Scrive Debenedetti:
« Il romanziere tradizionale si regolava come uno che credesse nell’idea classica, meccanicistica, di forza, quindi nella legge che presiede al prodursi di ogni evento particolare. Perciò si assumeva la piena responsabilità dei fatti narrati. Oggi invece si direbbe che nel romanziere, come nel fisico venuto dopo la teoria dei quanta, viga l’idea dell’onda di probabilità, la quale permette solo di constatare dei comportamenti di corpuscoli (i personaggi, i moventi) che vengono a contatto solo perché esiste statisticamente la probabilità che tale contatto si avveri, e producono un particolare evento, tra innumerevoli possibilità che non siano quei corpuscoli a incontrarsi, anzi che quelli non si incontrino mai ».
In questo orizzonte probabilistico si consumavano le riflessioni teoriche di Vittorini e Debenedetti: lo scrittore sarebbe morto il 12 febbraio 1966, il critico il 20 gennaio 1967.