di Alberto Bevilacqua
Debenedetti era un rabdomante della letteratura. L’intuizione del talento consisteva in un senso esatto del suono, segreto, che una pagina ha sempre (uno spartito sotteso); se non ce l’ha, non è una pagina, ma un foglio usurpato. II preciso rigore formale, per Debenedetti, nasceva da questo suono a sé, un’impronta naturale, a cui doveva aggiungersi la scelta dei timbri. Non c’è talento critico più assimilabile all’orecchio che è tipico del grande esecutore musicale: i libri erano, per Giacomo, strumenti sulle cui corde appoggiare l’arco, valutando all’istante le possibilità d’armonia.
A cospetto di questi strumenti, le realtà erano sempre « mères profanées » che aspettavano esecuzione. Avvicinerei Debenedetti a Schónberg e citerei, come punto di connessione, i 15 Lieder op. 15, su testo tratto dal Libro dei giardini pensili di Stefan George: dalle magiche sonorità, dalle immaginose coloriture.
La poesia si presenta con la chiarezza lineare di un giardino classico, ma Schónberg lo rende abitato dall’uomo contemporaneo. Ne nasce una doppia metamorfosi: del giardino e dell’uomo. Il rigore formale, diciamo dell’ambiente (tipo paradiso infantile di Kokoschka sul Galitzinberg), questo « splendido giaciglio cinto da una siepe di spine di porpora e nere », non può sussistere, anzi avvizzisce e muore, se non trova, nel personaggio, la scintilla del dualismo fra ordine esterno e fenomeno emotivo personale. Intesi entrambi – sia da Schónberg che da Debenedetti – come due tensioni musicali interagenti.
Rabdomante del gusto, rifacendosi, nel Gusto dei primitivi, a Lionello Venturi, egli sottolinea: « Per intendere lo sviluppo del gusto, è conveniente tener d’occhio la aspirazione prima che ha suscitato un nuovo mondo di preferenze e di tendenze ». Ecco il suono: l’ispirazione prima. E ancora insiste nel mettere allo sbaraglio la tirannide delle regole apprese e instaurare, in loro luogo, la esperienza della « rivelazione ». Sempre tenendo presente il merito di « sottrarre la parola gusto a quell’uso dilettantesco che oggi se ne fa: tanto che se sentiamo dire, massime da certe persone, che la tale è un’opera di gusto possiamo subito star sicuri che si tratterà di qualche snobistica esercitazione, vero surrogato dell’arte ».
Proprio da Debenedetti, dunque, veniamo messi su un avviso importante: che lo scrittore deve difendersi, con estrema accortezza, dalla letteratura e non limitarsi a respirare gli effluvi del suo giardino pensile, ritenendosi in regola con le regole. È un insegnamento che oggi va assai meditato. Ho conosciuto Debenedetti che avevo vent’anni; ebbene, lui mi ha salvato dai pericoli della patria letteraria da cui venivo appesantita da quei cascami di bertoluccianesimo che sembravano volerci convincere che il gusto era tutt’altro, quello da cui Giacomo metteva in guardia. Oh, no! Egli mi ha insegnato una visione culturale meno arroccata in effimeri privilegi e più aperta alla vita; mi ha spinto a credere nell’anima popolare di una cultura; da cui – va ribadito vere civiltà letterarie, i grandi sudamericani per esempio, anche Borges, sono nati. II tutto obliato e frainteso dai sopraccigliosi esteti che infestano il vuoto trono elitario della nostra cultura. Soltanto i raffinati manichei, i falsi puri – mi ripeteva Giacomo – possono vedere in quell’anima lo stadio dell’impuro e del naturalistico che, più spesso, è il focolaio dissimulato, l’alibi inconscio dell’infezione da raffinatezza: allora si diventa, sì, esteti che volitano sui pattini come se l’arte fosse un lago ghiacciato degno di figure obbligate.
Che direbbe, oggi, Debenedetti, aggirandosi tra tante pagine senza suono, applaudite da sordi che giurano di udirlo, tra tanto ghiaccio e tanti pattinatori che spassano come depositari delle chiavi deIla nostra vita culturale’ E che dovremmo dire noi, raggelati ai bordi di quel ghiaccio maligno, vedendo saettare come ombre di morti i re e i principi di una letteratura polare: che l’insegnamento di Giacomo è caduto nel vuoto’ No. Diciamo, piuttosto, che spesso e volentieri è stato frainteso, lo è tuttora. E allora bisogna, al di là delle care cerimoniose evocazioni, evitare che gli imbalsamatori riescano a impedirci di valutare questo scrittore nel vero significato del suo testo.
Badate: Debenedetti si cita, anche con venerazione, ma si sta bene attenti, in molti casi, a non leggerlo per il verso giusto. Se ne vanta l’intelligenza critica, ma il segno rivoluzionario, accusatore, lo si offusca, lo si cancella. Cominciamo con una buona rilettura. Forse sortirà il salutare effetto di radiare dall’albo coloro che si siedono sulle panchine del giardino pensile, aspettando di essere spostati, da quelle panchine, direttamente ai busti marmorei.
I dominatori del nostro gusto, si accontentano di ombre cinesi. Avallarli, significa offendere anche la memoria di Giacomo. Poca cosa, forse, per chi ha memoria solo di sé. Ma non poca cosa per noi, che passavamo ore con Giacomo, intendendoci a orecchio. Gli dobbiamo quello che abbiamo scritto, senza pattini.