“L’arte è sempre rivelazione di destino, valevole, nelle sue cifre luminose e oracolari, per tutto il succedersi delle generazioni, finché l’uomo amerà la poesia, cioè – lasciatemi credere – finché l’uomo sarà uomo”.
E’ il trepido auspicio che chiude lo scritto che reca in calce la data “Maggio 1949″, letto nel settembre dello stesso anno a Venezia al Congresso internazionale del Pen Club e pubblicato integralmente nel 1952 come prefazione alla edizione mondadoriana della prima serie dei Saggi critici la cui prima pubblicazione, per le Edizioni di “Solaria”, è del 1929.
E in quella sorta di gioco di specchi allestito in apertura del saggio Chaplin-Charlot per il quindicinale “Cinema” del 25 settembre 1936, Debenedetti:
“Le labbra fini e sottili di Charlot hanno quella dolcezza umana che è come un raggio sul pianto. Gli occhi riscattano in una luce umida e amica il volto di “quello che prende gli schiaffi”. (…) Con quelle labbra si sorride al sogno, con quegli occhi si accarezza il sogno, con quell’andatura dolente e miserabile si cammina per le trite strade del mondo, quando il sogno s’è spento. E’ Charlot l’ultimo figlio dei sognatori del ghetto? È, come dicono, un israelita?
In ogni caso, egli porta nella battaglia di sassi una paura – atavica, infusa nel sangue – d’aver la testa di vetro. Da quali avi, per quali vie è giunto fino a lui questo senso d’incubo millenario, questa angoscia della persecuzione radicatasi come terrore degli uomini, del mondo, della natura medesima? Si direbbe che anche la fortuna, quando lo coglie, sia una manovra del caso e gli crolli addosso come una beffa. Non gli vale la trepida e tenace fede nella bontà: a scorgerne in concreto i segni, barcolla quasi ricevesse un pugno in pieno petto”.
Le vicende degli anni a seguire si incaricheranno di riempire di senso quelle ataviche paure: nell’inferno che si scatena sull’Europa in seguito alle leggi razziali del ’37 Debenedetti non smarrisce la fede nell’arte, nella possibilità che essa possa risollevare l’uomo dalla stato di abiezione in cui è caduto. Nel “rifugio” di Cortona, nel biennio ’43-’44, è Vittorio Alfieri l’autore lungamente studiato e successivamente scelto ad aprire la terza serie dei Saggi critici, il volume che inaugura la collana “La Cultura” della casa editrice Il Saggiatore, da lui fondata nel 1958 insieme ad Alberto Mondadori con l’impegno di costruire una nuova cultura.
Nella Premessa al Catalogo del ’59 è richiamata la scelta programmatica:
“Nessun genere a preferenza di altri; eppure uno che nella Cultura li apparenterà tutti, il Saggio. In pochi decenni, quest’ultimo nato della famiglia letteraria si è fatto una posizione da rivaleggiare coi suoi fratelli maggiori: col romanzo di cui emula le invenzioni costruttive e la forza di trascinamento; con la poesia, di cui emula il lirismo nell’intensificarsi della lucidità”.
La determinazione a uscire dalle ‘nicchie’, per una idea della cultura come dialogo a totale apertura di compasso, è richiamata nella Premessa al Catalogo dell’autunno-inverno 1960: “Soltanto l’idea dell’arte come suprema specializzazione può condurre alla fittizia mitologia dell’arte “pura”. (…)
Anche la letteratura italiana, negli anni tra le due guerre, ha vissuto la mitologia della “purezza”. Alfredo Gargiulo, che fu il più acuto e consenziente critico di quel periodo, parlò di una “macerazione critica”, indispensabile a ottenere i risultati meglio rispondenti a quella mitologia. (Non si nega che, in alcuni casi a tutti noti, quei risultati siano rimasti tra gli ottimi di allora). La “macerazione” consisteva soprattutto nel mettere in mora o, per lo meno, in posizione subordinata e innocua, i motivi e gli interessi che avevano contraddistinto la fase precedente della nostra civiltà letteraria: quella che nel primo ventennio del secolo era stata, dice il Gargiulo, “prevalentemente culturale, psicologica e di pensiero”. (…)
Quelle sentenze provenivano da uomini di gusto e di dottrina, capaci di formularle in termini irreprensibili, mettendole al riparo da ogni stravaganza o aberrazione polemica. Essi però non si avvedevano che i loro richiami all’ordine (letterario) erano già un alienarsi nella letteratura, le premesse di un’assenza che lasciava maturare indisturbati i peggiori disordini (non più letterari). Per il momento, e salve le eccezioni già accennate, la prima a soffrirne era l’arte”.
Sul rapporto della cultura con la politica molto puntuale la Premessa al Catalogo n.° 4 della primavera 1961:
“Il Saggiatore non ha mai taciuto la propria opinione sui rapporti tra cultura e politica, tra cultura e società. Oggi d’altronde gli avversari della cultura hanno gettato la maschera: mostrano senza quasi più ritegno che i loro tentativi di sfiancare la cultura, di ridurla a un esercizio sterilmente teorico, involutivo e alla fine disgregatore, obbediscono a movimenti politici. Perciò la cultura va difesa prima di tutto sul fronte politico; così come reciprocamente, le posizioni politiche progressive, per le quali non abbiamo cessato di lottare dai giorni della Resistenza, vanno difese sul fronte di una cultura laica, spregiudicata, storicamente decisa a guardare fino in fondo i fatti e le strutture, a indagare l’uomo senza remore confessionali o superstiziose”.
E’ una linea di pensiero lungo la quale Debenedetti si è mosso con coerenza fino dagli anni della sua formazione nella Torino gobettiana. Dei suoi resoconti per la “Gazzetta del popolo”, come inviato speciale dal 1927 al 1929 a Pontigny, in Borgogna, per Les Entretiens che si svolgevano ogni anno, per la durata di dieci giorni, intorno a un tema in cui si confrontavano studiosi di diverse nazionalità e discipline, si ripercorra in particolare Fra i moderni umanisti di Pontigny del 14 novembre 1927:
“Si vive sotto il segno della grazia malinconica, o della malinconia prestigiosa: secondo l’accento che l’ora od il colore del cielo o l’iridescente variare dei lumi verdi e grigi posano su questo paesaggio di Borgogna. (…) dalla vista di queste campagne si passa naturalmente alla sala dell’Abbazia di Pontigny dove, ogni pomeriggio, una piccola folla di educatori si raduna per una decade di discussioni sulle sorti e sulle possibilità di un umanesimo moderno. Umanesimo moderno: ricerca dell’uomo a cui il viandante scorto pur ora sulla pianura potrebbe fornire il simbolo dell’uomo in piedi ed in equilibrio tra le attrazioni del “sovrumano” e le servitù dell’”infraumano”, come si esprime il programma di questi Entretiens.
Non è dir molto, né dir cosa peregrina, ripetere che i francesi hanno la grande arte del conversare. Ma assistere alle creazioni di quest’arte è sempre una meraviglia. Questi Messieurs trattano, con i più nobili e sottili agréments della causerie, tali questioni per cui altri, meno avvertito, vorrebbe per lo meno bandire una roboante accademia. L’europeismo, il culto dell’Occidente diventano qui un fatto compiuto”.