Dal volume di Rosita Tordi Castria Il terzo occhio. Studi su Giorgio de Chirico, Alberto Savinio, Italo Calvino, Moncalieri (To), CIRVI, 2015, pagg. 41-62:
Alberto Savinio a Roma
I° - Passeggiate romane
E’ a Roma che Savinio nel 1923 decide di trasferirsi, nel nuovo quartiere Nomentano, non lontano dalla abitazione di Luigi Pirandello, con il quale collabora all’iniziativa del Teatro d’Arte.
Più che il teatro è tuttavia il cinema che, nel breve soggiorno 1923-1926, esercita su di lui una particolare seduzione: frequentatore assiduo delle sale cinematografiche scrive recensioni per “Il Corriere Italiano” nelle quali non perde occasione per manifestare il suo disappunto di fronte alla montante ondata retorica della Roma imperiale.
Recita la sua recensione al film “Messalina” al Cinema Corso, nel fascicolo dell’11 aprile 1924:
Mi nasce il dubbio che i miei contemporanei stiano un pochino esagerando nelle rievocazioni della Roma antica. Codesti sono tuffi a capofitto, che non sempre riescono secondo le regole dell’arte. (…).
Credo che il carattere romano sia più difficile a penetrare, che non quello greco. Lo stesso Giambattista Piranesi, che all’interpretazione dello spirito di Roma si volle accingere con uno zelo e con una devozione filiali, non ci riuscì se non a metà, in un modo comunque specioso, arruffato e falsamente romantico. Ce n’est pas ҫa! Il solo a parer mio che si sia avvicinato alla verità romana, è Shakespeare nel suo Giulio Cesare, e particolarmente nella scena della meditazione di Bruto, all’alba, nell’orto. (Mi afferro al tavolino per non fare il nome di Teodoro Mommsen, visto che costui non è considerato un artista).
Dirò di più: lo spirito latino è completamente esulato dalla odierna città di Roma, sopraffatta qual’è questa città, prima dal barocchismo e dal gesuitismo, dal cavallottismo poi e dalla sciatteria democratica, infine dal trionfante estetismo della Terza Italia. Quanto al vero spirito latino, scacciato dall’urbe, rifiorisce spontaneo e, per fortuna, insospettato dai più, nella periferia e nei quartieri nuovi, tanto invisi ai buongustai e altri amatori di anticaglie. E io, che ho l’onore di abitare, assieme con impiegati di concetto e piccoli rentiers, nel quartiere Caprera, vi so dir io come laggiù rinasca, puro e solitario, lo spirito del buon Catullo.
Di qui il racconto Passeggiate per Roma, pubblicato nel fascicolo del 16 agosto 1923 del “Corriere Italiano” e mai ripreso in volume.
In apertura il dovuto omaggio all’autore di Promenades dans Rome:
Stendhal, cui torna l’onore di questo titolo, fu costretto a interrompere il suo diario romano alla data del 1830, per ragioni estranee alla sua volontà. Possa il silenzio terreno essergli compensato con una pace degna di tanta gentilezza d’animo e di pensiero!
Maestro impeccabile, signore di ogni bellezza, dobbiamo a lui il nostro accorto e sapiente vagabondare, a lui quella sottile scienza che, pur passeggiando e divagandoci, aiuta a scoprire il volto illustre e in perpetuo rifiorire delle nostre città.
Di fatto nel racconto saviniano non è lasciato spazio alcuno ad annotazioni di costume o a esplicite riflessioni di carattere politico o religioso, come avviene nelle Promenades stendhaliane e diversi sono gli itinerari scelti:
Dal giorno che il gran bighellone lasciò bianchi i suoi foglietti intestati al Consolato francese di Civitavecchia, l’Italia s’è andata arricchendo di molte novità né tutte spregevoli; nonostante le assicurazioni di taluni nostri fratelli sistematicamente brontoloni.
L’Italia è la terra dei miracoli nascosti, e se pure quella di ieri e questa d’oggi fanno pompa di tanta banalità e di tanta bruttezza, noi sappiamo che in essa germoglia tuttavia per sua immortale virtù una bellezza vereconda, che ad affiorare non aspetta se non un momento di calma, di felice concordia tra noi figli lontanissimi di Julo.
Favoriti dall’estate, stagione di tutte più larga (anche Stendhal era passeggiatore estivo), torniamo a esplorare questa capitale del mondo, cui non so quale Académie de Beauté ha trasmesso il segreto dell’eterna giovinezza.
A catturare l’attenzione di Savinio è l’architettura della Roma di fine Ottocento, quella cosiddetta ‘umbertina’, e nella sua modalità di sguardo si direbbe che un ascendente di assoluto rilievo svolga proprio la settima arte: una sorta di occhio meccanico scorre sulle facciate delle imponenti architetture di Gaetano Koch, dal palazzo Boncompagni-Ludovisi, che nel 1946 diventerà la sede dell’Ambasciata degli Stati Uniti, all’edificio di Via Nazionale, sede della Banca d’Italia, ai due palazzi simmetrici in Piazza della Repubblica: «Mossi dal Centro, dai vicoli sinistri dove Roma ritrova l’antico suo nome di Amor, eccoci quassù presso le mura aureliane».
Affiora nel movimento di avvio l’inevitabile amarezza per gli edifici e i giardini scomparsi per far spazio alle nuove costruzioni:
In principio il nostro animo piega alla nostalgia, rievoca il silvestre fantasma della Villa Ludovisi e si rattrista. (…).
È abbattuto il sonoro popolo dei lecci e delle querce, pensiamo, muse a Nicola Poussin, l’occhio però si posa con difficoltà sulle cupole che brillano al sole, sulle finestre a bocca di cassaforte di alcune pagode colossali, eldorado e mattatoio alle turbe dei levantini e alle carovane degli Sciti.
No, il confronto non regge, eppure lo sconforto è passeggero: di lì a poco l’incontro con un palazzo familiare d’aspetto e refrigerante ai nostri gusti di borghesi inveterati, ci riconsola.
Come mai?
Questo casone bonario richiama per non so quale riposta affinità al nudo austero e pur gentilissimo del palazzo Farnese, sorge di tra gli alberi come un fantasma più giovane, più fresco di quello.
Il lettore ha già capito.
Col nostro avvicinarsi si giustifica il proverbio che l’apparenza inganna: palazzo non è, è una fetta di palazzo. Ma che importa? Contentiamoci della sola facciata, tanto più che lo stile truccato ha del buono in questa città barocca, edificata quasi interamente sul disegno di una severa e ben intesa scenografia.[1]
Savinio ritiene che i palazzi progettati da Koch siano apprezzabili esempi di architettura neoclassica:
Il fu Koch, padre di questo cubo enorme di pietra dove la vedova sovrana vive chiusa come una farfalla rarissima dentro uno scatolone spropositato, calò in Italia quando non ancora i germani arrivavano quaggiù importatori pazzarelloni dello spartachismo artistico, ma venivano freschi tuttavia della devozione del silfo nordico al vecchio Pan latino, devoti e vogliosissimi d’incivilirsi, di farsi la mano ai nobili mestieri.
Il suo animo fu colpito dunque, più che quello degl’indigeni stessi, dalla bellezza semplice e pur compitissima dei nostri palazzi del cinquecento. Koch s’ispirò a quelli più che non facessero gli architetti nostrani, e pur aggiungendovi particolari nuovi e più intonati al tempo, seppe mantenere, ai suoi edifici (il nominato palazzo della Regina Madre con le due ville annesse, la sede della Banca d’Italia, l’emiciclo dell’Esedra, taluni palazzetti di civile abitazione in via XX Settembre e in via Ludovisi) il carattere fondamentale del palazzo romano della Rinascenza, specie negli spazi tra ripiano e ripiano come pure tra finestra e finestra, nella inquadratura dell’ingresso.
L’opera del buon tedesco italianizzato trova luogo decorosamente in quell’architettura così detta umbertiana, di cui non abbiamo a dire se non un gran bene, a dispetto dei fabbricatori modern-style, che affettano davanti a quella arie di superiorità come dinanzi a fanciullerie superate.[2]
Incontenibile al contrario l’ironia di Savinio di fronte ai palazzi sovraccarichi di decori del quartiere Coppedé:
In quelle vertiginose costruzioni dove gli inquilini presi dal panico pendono a grappoli fuori delle bocche dei mascheroni, attaccati gli sciagurati alle mammelle di stucco, ai nasi sgrugniti di cartapesta per isfuggire con qualche stratagemma disperato alle operazioni nefande, agli stupri, ai violi, alle messe nere che si celebrano nel chiuso di quei templi del dio Lingam; in quelle costruzioni babiloniche, dico, segnate come il palazzo di Nabucodorussùr col nané tekél pharés, non mi è riuscito mai trovare una giustificazione accettabile a tutte le sporgenze, rientranze, pinnacoli, guglie, fregi, rilievi che le allungano, le accorciano, le bucano, traversano, gonfiano.
Spiriti sciagurati! Anche le pietre patiscono per le vostre offese, vi direbbe alcun animista tolstoiano, e se ne hanno a male del vedersi trattate a codesto modo.
Esilarante l’ironia saviniana di fronte alle forme esasperatamente estetizzanti degli edifici progettati da Gino Coppedé:
Un momento! C’è un particolare, uno solo, di cui mi sembra intendere l’utilità: dei balconi con ringhiera bombeggiante voglio dire, costruiti a quel modo con l’evidente proposito d’incastrare il pallone delle donne gravide. Ma può essere, si pensa poi, che in tali sedi consacrate senza dubbio possibile agli sterili amplessi, fioriscano onesti germi dentro un grembo di madre?
L’argomentazione va a rotoli.
Lasciateci le nostre case! Nella casa noi si vuole vivere in pace coi santi, lavorare per meritarci la salute di là, amare secondo natura: non assaporare in anticipo i raffinati orrori di un inferno presieduto da un satanasso estetizzante.
Lo sguardo torna sugli imponenti edifici progettati da Gaetano Koch:
Quella era ancora un’architettura casalinga. Se mai fu dato ad aggettivo significato di lode, lo do a questo. (…). Per il palazzo della Farfalla Rarissima, c’è qualcosa di più: un sospiro romantico quale più che dal palazzo stesso, sale dagli spazi alberati che lo circondano vigilati da statue nascoste tra i rami, dalle due ville che gli girano intorno come fedeli satelliti intorno l’astro maggiore, Roma quassù ritrova l’antico suo nome di Flora.
A fermare in particolare l’attenzione di Savinio è una costruzione adiacente al corpo centrale del grandioso edificio:
La villa che sorge all’angolo di sinistra, la protegge un muraglione massiccio, torvo come spalto di fortezza. Nonché mascherare l’ingresso, codesto muraglione conferisce a quello, per i due sbocchi particolarmente che rispondono sulla via, un che di ambiguo, d’ironico, come se invece di menare quegli sbocchi a un palazzotto tutto fiorito di attempate dame d’onore, di farfalle non tanto rare quanto la Rarissima ma non spregevoli tuttavia né indegne della vetrina, dessero accesso nientemeno a un labirinto.
L’edificio principale non ha che farsene di ripari armati. La sua facciata anzitutto, chiusa per se stessa e inespugnabile, non cade direttamente sulla strada, ma sta un poco indietro coi piedi sotto la sottana, bagnata come l’isola del mare da un praticello fiorito di fontane, cinto a sua volta di paracarri traccagnotti, incatenati l’uno con l’altro.
Nel praticello oltre di ciò, guarda un giardiniere con la lancia d’innaffiamento in pugno, e dinanzi le quattro colonne del peristilio monta la guardia una sentinella che con le mani guantate di filo bianco carezza il calcio del suo modello novantuno, e accanto ai paracarri, più immobili di quelli, vigilano due carabinieri col pistolone sulla coscia. A che le muraglie, dunque?
Ma la villa d’angolo, dal sinistro lato la ripara ancora un folto di lecci e di palmizi, che implorano il cielo con cento mani.
La casa sorge di là dietro, custodita dallo spalto e dal fresco dell’oasi.
Quanto alle statue di eroi e di divinità che vigilano agli angoli del tetto, assicurano alle farfalle minori una maggiore incolumità, che non le aste lanceolate di Francklin.
Il romanticissimo Koch – non si sa mai – ha provveduto a difendere la sua villa contro un mare spesso smontato e in furore.
Anima previdente! Mentre sto a guardare dal caffè di rimpetto, ecco una dama bellissima farsi alla finestra, salutare col fazzoletto dell’amistà un galeone che naviga contro vento verso l’ombroso continente di Villa Borghese.
Le passeggiate romane del 1923 si interrompono qui.
Riprenderanno diversi anni dopo, quando, rientrato in Italia dal secondo soggiorno parigino, dopo un passaggio milanese, il biennio 1933 – 1934 in cui ha fondato e diretto il mensile di letteratura e architettura, “Colonna”, Savinio decide di prendere stabilmente dimora in Roma.
Ancora una volta sceglie di abitare in un quartiere residenziale e non nel centro storico dove peraltro ama ora ambientare molti dei racconti di Casa “La Vita”, una silloge pubblicata nel 1943, che è anche uno dei suoi esiti narrativi più convincenti.[3]
Si ripercorra in particolare il racconto Formoso:
Così arrivammo a Roma nel luglio 1939, attraverso la Cassia tirata lucida e nera per campagne molli di colline, morbide di prati, civilissime di ville. Il caldo si andava dissolvendo allorché arrivammo al ponte Milvio, la felicità del vespro calava sulla capitale.
(…). Scesi con silenzioso andare giù per il Lungotevere, voltai sul ponte Sant’Angelo, m’inoltrai tra le statuone attorcigliate da un’immobile pazzia, e a metà del ponte Maria d’un tratto esclamò: “Guarda! San Pietro è scoperto!”. Nella sua voce sonava come l’annuncio di un pericolo.[4]
Come nel 1923 è sempre l’amato Stendhal di Promenades dans Rome la sua guida ideale:
La prima impressione fu di un repentino passaggio dal buio alla luce, ma la seconda fu anche più meravigliosa. I miei occhi vedevano ciò che prima non era possibile vedere. Il mio sguardo aveva acquistato dunque tale perspicacità, da traversare i muri? San Pietro, di cui appena uno spicchio avrebbe dovuto mostrarsi attraverso la fessura dei Borghi, mi appariva intero là in fondo, e come ricostituito nella sua lontana infanzia.
Mi tornarono in mente le parole di Stendhal.
Percepibile lo sgomento di Savinio:
Questa mattina, traversando ponte Sant’Angelo in landò, scorgemmo San Pietro in fondo a una via angusta. Napoleone aveva annunciato il progetto di abbattere tutte le case che si ammucchiano alla sinistra di questa via, e una volta disse che il decreto lo avrebbe firmato suo figlio. Ma il mondo di poi si è rimesso al passo, e il regime costituzionale è troppo timorato per affrontare spese così folli.
Prima che a Napoleone, l’idea di aprire i Borghi era venuta a Sisto Quinto, e, dopo Napoleone, essa fu ripresa dalla Repubblica romana di Mazzini. Le idee talvolta traversano i secoli, prima di arrivare all’attuazione. Sopra la Cupola si accendevano le prime stelle.
Patente l’indignazione per le demolizioni, in particolare quella dei Borghi, che negli anni del regime fascista trionfante hanno sfigurato il centro storico romano:
Ero arrivato in piazza Pia, stavo per inoltrarmi in quell’immenso canale sconvolto e avanzare verso il doppio colonnato a tenaglia con che Madre Chiesa accoglie tra le braccia le sue pecorelle, allorché un metropolitano bianco dal capo alle piante si piantò davanti a me di spalla, e aprì le braccia a croce. Era una sosta di dogana, prima di entrare in un porto sconosciuto.
A destra e a sinistra le demolizioni erano fresche, vive come i pesci dentro la cesta del pescatore. Dalla parte di Santo Spirito un corteo di bianche colonnine unite al sommo da una melodia di archetti, somigliavano tante vecchine deboli di vista che camminano in fila tenendosi per mano. Era manifesto in quelle colonnine il pudore delle donne sorprese in camicia da notte. Un’ala di parete, relitta sullo scempio di una casa squarciata, tolta alla vita chiusa e alla luce delle lampade, guardava il cielo con terrore.[5]
Si configura uno spazio urbano sul crinale tra realtà e allucinazione:
Un uomo intanto si era accostato alla Topolino. I suoi occhi nerissimi e straordinariamente calmi, dinotavano uomo esercitato a contemplare le forme e a penetrare il loro intimo. Avrei giurato che costui era pittore.
Nell’opera di demolizione dei Borghi è andata infatti distrutta anche la dimora di Raffaello il quale è ora costretto a vagare inquieto in cerca di un nuovo alloggio: «Come non averlo riconosciuto prima, e dagli autoritratti, e da quell’occhio soprattutto, così calmo in apparenza e così straordinariamente attento?»
Prende il via una conversazione tra Savinio e il grande pittore come se si trattasse di un incontro tra gentiluomini che casualmente si ritrovano dopo essersi a lungo persi di vista: «Molto lieto … Savinio. Scusatemi se non vi ho riconosciuto subito, ma a tanta distanza di anni (…).
Stavo per dirgli l’ammirazione che ho per lui, ma pensai che era stupido dirgli una cosa così ovvia».[6]
L’improvviso accalcarsi della folla in quel punto li allontana e Savinio, alle domande della propria compagna di viaggio che assiste stupita alla scena, risponde rassicurante: «Nulla di grave. Effetti delle demolizioni. Questa terra qui intorno è così imbevuta di storia, che, rimestandola col piccone, è ritornato fuori il passato».[7]
L’indignazione di Savinio si manifesta in tutta la sua irruenza nella descrizione dei volti della folla che si accalca tra le macerie: «Al lume delle torce, le facce erano di belve. Il fumo si ribaltava sulle teste, come l’ala stessa della morte che, invisibile, seguiva a volo l’orribile corteo».
Un non esitante j’accuse contro i guasti del regime.
Nella stessa direzione la dilagante presenza della morte nel racconto Il signor Munster ambientato sempre nel centro storico di Roma:
Via del Babuino. Una donna esce da un portoncino. Sinistri portoncini di Roma vecchia, che immettono in piccoli mondi di misteri, di ambizioni meschine, di superstizioni, di assurdità scambiate per la sola verità del mondo. (…).
La donna ha fretta e a passi rapidi (…) si allontana verso Piazza del Popolo.
Il signor Munster la guarda con quel residuo di occhio che gli rimane ancora dentro l’orbita già quasi completamente cava, e riconosce l’Aurora. Essa ha fretta di raggiungere l’orizzonte, per ripetere anche quella mattina la parte che le tocca fare da quando la luce è apparsa sul mondo.[8]
E proprio mentre insegue Aurora, simbolo della vita continuamente rinnovantesi, il signor Munster è costretto a prendere atto del progressivo, inesorabile, disfacimento del proprio corpo:
L’idea che le aurore continuino anche dopo di lui, gli riesce insopportabile. Il signor Munster affretta il passo. L’Aurora è già lontana. Il signor Munster si mette a correre. L’Aurora traversa il fornice centrale della porta del Popolo. Il signor Munster guadagna terreno. Ma d’un tratto un rumore molle, per terra, alla sua destra, lo ferma. Il signor Munster si volta: riconosce il suo pollice sul marciapiede, davanti al portone dell’albergo di Russia.
Nel vano inseguimento di Aurora il corpo del signor Munster si riduce a un mucchio di stracci mentre la sua mente conserva un’assoluta lucidità:
L’Aurora imbocca il ponte Milvio, tra la statua di San Giovanni Nepomuceno e quella dell’Immacolata, “macula non est in te”, e di là dal ponte svolta a destra nel viale di Tor di Quinto. Il Tevere scorre livido sotto la fila dei fanali.
Passano dieci minuti, un quarto d’ora, mezz’ora. Dietro la cresta dei monti Albani comincia a poco a poco a spuntare la testa di Aurora, che poco prima il signor Munster, ora ridotto a un mucchio di stracci, aveva veduto uscire dal portoncino dell’ingegner Titone, in via del Babuino. (…).
L’Aurora prende una posa da diploma. Sta seduta nel cielo, la gamba destra piegata ad angolo, il braccio sinistro penzoloni, la mano destra atteggiata a un gesto assurdo ma significativo. E offre al mondo un sorriso senza amenità, fisso, rigido, “ottocentesco”, da contadina davanti all’obiettivo del fotografo.
E la vita continua come prima.
Quindi in una sorta di postfazione, Postilla a “Il signor Munster”, Savinio richiama l’attenzione sulla peculiarità del suo ‘ascoltare’ e ‘guardare’:
Questo vede il signor Munster.
Vede la traccia che gli dei hanno lasciata nel cielo.
Vede la traccia che nel cielo hanno lasciato gli uccelli.
Vede la traccia che nel cielo hanno lasciato le nuvole.
Tutte le nuvole.
(…).
Quelle che il 17 febbraio 1600 videro un giardinetto di fiamme accendersi in Campo di Fiori intorno alla figura nera di Giordano Bruno.
(…)
Il signor Munster vede la traccia che i suoni hanno lasciato nel cielo.
Tutti i suoni.
Tutti i suoni che hanno echeggiato da quando echeggiano i suoni.
Voci degli dèi dal cielo – di tanti dèi e i gridi delle loro baruffe, che gli uomini non hanno udito mai, ma che questa iperaudizione rivela.[9]
Sono crollati i confini spazio-temporali e si scopre l’anima in ogni cosa, dai palazzi alle statue, agli alberi.
Emblematico in questa direzione è il racconto Flora .
Innegabile l’ascendente del romanzo Gradiva di Jensen in cui l’archeologo Norbert Hanold, visitando un museo di Roma, si innamora della figura femminile riprodotta in un bassorilievo.[10]
Quel che segna la distanza è la reciprocità nel rapporto d’amore tra l’uomo e la statua:
Marco gareggiava d’immobilità con la retrostante Flora. Non mutava posizione nemmeno quando il sole superava la barriera degli olmi e lo dardeggiava negli occhi. (…). Marco s’orfeizzava. Nulla gli sfuggiva dei rumori minuscoli che, tutti assieme, compongono il silenzio della natura, come il complesso dei puntini variegati compone il quadro divisionista. I sussurri, i fruscii, i tonfi minuscoli, i crissi e i bissi sui quali il frinire di una cicala, il gorgheggio di un uccello, il canto lontano di un contadino giganteggiavano come voci sopraterrestri.
E un giorno, tra quelle piccole voci, una ne individuò Marco di sonorità insolita, e solo dopo che ripetute volte essa ebbe pronunciato: “Marce…”.
È il segnale che la statua di pietra ricambia l’amore dell’uomo:
Marco, tremante di commozione, fissava la statua che si animava poco a poco. (…).
Gli occhi di Flora brillavano più vivi, le sue labbra sbocciarono al sorriso. Era dunque lui, uomo, che aveva operato quel miracolo?
Il racconto si chiude con la morte di Marco tra le braccia di marmo di Flora che, preda di un inconsolabile dolore, non si stanca di invocare il nome dell’amato:
Dopo il tramonto del sole gli uccelli smisero di cantare (…). Anche l’assiolo tacque, e la notte alta e pura non fu abitata più se non da quella voce lacerata da un immenso dolore, che dal fondo delle montagne, dal cuore della pietra continuava a chiamare: “Marce!… Marce!… Marce!…”.
È da questa concezione animistica della realtà che discende l’inedito sguardo di Savinio su Roma all’altezza di Casa “La Vita”: senza dubbio lontana è l’immagine della città rimandata dall’esile racconto del 1923, Passeggiate per Roma, ma identica la distanza dalla vuota retorica del monumentalismo di regime.
[1] Savinio ha senz’altro letto anche il diario di viaggio Rome, Naples et Florence en 1817, in cui, in data 4 gennaio, Stendhal confessa: «Ho passato venticinque giorni ad ammirare e a indignarmi. Che delizioso soggiorno sarebbe la Roma antica se, ultima beffa, una cattiva stella non avesse voluto che sulle sue fondamenta sorgesse la Roma dei preti!» e, in data 7 gennaio, in occasione della rappresentazione dell’opera Quinto Fabio nel teatro Argentina: «È qui che la vanità romana esplode in tutta la sua goffaggine. Questi selvaggi abbrutiti prendono senza tanti complimenti per sé tutto quello che si dice degli antichi romani».
[2] L’edificio è stato commissionato nel 1885 all’architetto Koch dalla famiglia Boncompagni Ludovisi e nel 1900 acquistato da Vittorio Emanuele III° perché diventasse la residenza di sua madre, la regina Margherita di Savoia, vedova di re Umberto I°
[3] A. Savinio, Passeggiate per Roma in “Corriere Italiano”, 16/17 agosto 1923.
5 Formoso in Casa “La Vita”, Milano, Adelphi, 1988, p. 113. Anche il pictor optimus negli anni Venti si fa propositore, con la serie delle “Ville romane”, di una intensa e surreale interpretazione dello spirito di una Roma rinascimentale e barocca ma ancora visitata dagli antichi dei.
[5] A. Savinio, Formoso in Casa “La Vita”, op. cit. p. 114
[6] Ivi, p. 116
[7] Ivi, p. 119
[8] A. Savinio, Il signor Munster in Casa “La Vita”, op. cit., p. 247.
[9] A. Savinio, Postilla a “Il signor Munster” in Casa “La Vita”, op. cit. p. 289/290.
[10] Recita l’incipit: «Era il loro terzo incontro dopo quel viaggio. La loro relazione era durata tre anni, senza una frattura, senza un rilassamento, senza un diminuendo. E un giorno, d’improvviso, (…) essa partì, tenace, come per una dichiarazione di disamore.
S’incontrarono dopo il viaggio, in un mondo trasformato».
Luogo dell’incontro è Roma, «(…) in tre caffè diversi, uno in via XX Settembre, l’altro in piazza del Popolo, il terzo nei pressi di piazza Cavour, come se il mutare locale avesse potuto recare mutamenti anche nella loro situazione».
L’azione si sposta quindi in una dimora sul confine del Comasco con la Brianza, in cui era stato ospite Giovanni Bellini quando orchestrava Norma: «Bianche vele posavano sul lago. Le case di Cernobbio brillavano sul monte di rimpetto. Villa d’Este si specchiava nell’acqua immobile. (…)».