Rovani vs. Verdi, relazione presentata al convegno L’unità d’Italia nell’occhio dell’Europa svoltosi a Torino dal 15 al 19 settembre 2011, confluita in Rovani contro Verdi, Moncalieri (To), 2013, CIRVI.
ANTEFATTO
Le Confessioni e la turba di Gorizia è un’esile raccolta di inediti di Carlo Michelstaedter pubblicata nel 2010: trascrizioni di risposte a un questionario, una sorta di gioco erudito, ‘gioco delle confessioni’, in un salotto della borghesia ebraica di Gorizia il 26 dicembre 1905.[1]
Tra le ‘confessioni’ quella della sorella Paula la quale, alla richiesta di indicare il suo romanziere preferito, non esita a fare il nome di Giuseppe Rovani, lo scrittore milanese la cui presenza, nel corso dei miei studi, si è sempre fittamente intrecciata con quella di Carlo Michelstaedter, fino dagli anni universitari quando, al momento di decidere l’argomento della tesi di laurea, due possibili tracce mi sono state suggerite da Giacomo Debenedetti, titolare della cattedra di Letteratura italiana moderna e contemporanea nell’ Università di Roma “La Sapienza”: I mille versi di Carlo Michelstaedter e Le “Tre arti” di Giuseppe Rovani.
La scelta è caduta sull’opera saggistica di Rovani ma successivamente, quasi a tacitare un inguaribile senso di colpa, mi sono occupata con assiduità dello scrittore goriziano.
Alla lettura della ‘confessione’ di Paula innegabile la mia sorpresa: poiché negli anni adolescenziali era lei a orientare le letture del fratello, mi è sembrato infatti legittimo ipotizzare che Rovani sia stato il romanziere allora preferito dallo stesso Carlo.
Di qui una sorta di inaspettato viatico alla ricerca, confluita nel presente volume, sulle possibili motivazioni della decisione dello scrittore milanese di tornare al romanzo nel 1856, con Cento anni, dopo l’interruzione di un decennio.
L’indagine si è incentrata sulla collaborazione di Rovani a “L’Italia musicale”, la rivista milanese fondata nel 1847 dall’editore milanese Francesco Lucca, quindi sui romanzi del 1868 e del 1873, La Libia d’oro e La giovinezza di Giulio Cesare, portando all’evidenza una scrittura narrativa condotta lungo rotte aperte a una pluralità di incroci e collisioni che trovano il luogo privilegiato di riferimento in una forma-teatro nella quale è riconoscibile l’ascendente della concezione teatrale teorizzata da Richard Wagner.[2]
ROVANI CONTRO VERDI
«La Scala era il suo regno. Il suo trono era composto degli scalini che mettono ai palchi. Intorno a lui si affollavano gli artisti e i letterati per sgraffignargli qualche frase per il giudizio del momento, e per la critica dell’indomani. Il giudizio di Rovani girava in un istante la sala. Il suo Dio, Rossini».
È il profilo sveltamente schizzato da Carlo Dossi in Note azzurre.[3]
La passione per il teatro in musica scandisce il percorso artistico di Giuseppe Rovani fino dall’esordio, nel 1837, con il libretto d’opera Don Garzia, tratto da un dramma di Vittorio Alfieri, che avrebbe dovuto essere rappresentato nel 1839, con la musica di Antonio Costamagna, nel teatro Carlo Felice di Genova.
La scelta del mondo poetico e ideale dell’Alfieri tragico si direbbe imposta dai tempi: è «la morale intransigente dell’uomo libero in tempi di schiavitù», dichiara Piero Gobetti nel saggio del 1923 Vocazione politica di Vittorio Alfieri.[4]
Ed è scelta condivisa nell’ambito del teatro in musica dell’Italia risorgimentale: «Tramite il melodramma le situazioni verbali della poesia tragica alfieriana – il rilievo è di Giacomo Debenedetti nei suoi saggi alfieriani scritti nell’esilio cortonese del 1943-’44 – andavano a trovarsi una musica che sapesse le dirette vie del cuore».
È nel passaggio al melodramma che gli eroi, le eroine dell’Alfieri perdono la loro astrattezza statuaria e «trovano vera carne, vera sostanza umana, diventano i miti popolari, i proverbi dell’anima italiana».[5]
L’esordiente Rovani sbalza dunque la figura del letterato ‘sprotetto’, dello scrittore «non solo immune dall’influenza del principe, ma tutto teso a lavorare contro il principe», nella quale gli piacerà sempre riconoscersi.[6]
Una forte tensione etico-politica marca tutto il suo percorso artistico, dal teatro di prosa, con il dramma storico, Bianca Cappello, pubblicato nel 1839, alla narrativa, con i romanzi storici della prima stagione tra il 1843 e il 1846, Lamberto Malatesta o Masnadieri degli Abruzzi, ambientato nella Firenze di Francesco I° dei Medici, Valenzia Candiano o La figlia dell’Ammiraglio, sullo sfondo di una Venezia rinascimentale, Manfredo Pallavicino o I Francesi e gli Sforzeschi, nella Milano di Ludovico il Moro e, dopo una interruzione di dieci anni, con il romanzo ciclico Cento anni, un affresco della vita milanese tra il 1750 e il 1850, pubblicato a puntate sulla “I. R. Gazzetta Ufficiale di Milano” a partire dal 31 dicembre 1856, quindi in volume nella tipografia milanese Wilmant nel 1859, al quale segue, nel 1868, La Libia d’oro. Scene storico-politiche, e in chiusura il romanzo il cui titolo, nella pubblicazione in rivista, La Giovinezza di Giulio Cesare ossia Tavole di ragguaglio tra gli antichi e i moderni scellerati, diventa, nella edizione in volume F. Legros del 1873, La Giovinezza di Giulio Cesare. Scene romane.[7]
È indagando nel decennio tra il 1846 e il 1856, in cui il narratore tace ma è molto attivo il saggista e il critico militante, che è possibile individuare le ragioni e le modalità del ritorno di Rovani al romanzo.
Sono quelli gli anni infuocati delle lotte risorgimentali e lo scrittore milanese è presente nei luoghi nevralgici dell’azione: nel 1847/’48 è a Venezia, dove si è trasferito dal 31 ottobre 1847, licenziandosi dalla Biblioteca Braidense per accettare un incarico di istitutore privato, quindi a Roma, e nel 1849/’50 a Capolago, sul lago di Lugano, dove incontra frequentemente Carlo Cattaneo, in esilio nella vicina Castagnola.[8]
È qui che pubblica nel 1850 la memoria storica Daniele Manin, con la Casa Editrice Elvetica, una tipografia clandestina, con sede a Capolago, fondata dall’esule genovese Alessandro Repetti e diretta da Gino Daelli, particolarmente attiva tra il 1830 e il 1853, quando le Autorità elvetiche decidono di chiuderla a causa delle forti pressioni del governo austriaco: libri e materiali vari, dai manifesti ai proclami di patrioti e esuli, sono portati in barca sulla costa italiana, territorio del Lombardo-Veneto, e da qui diffusi nell’intera penisola.[9]
È il caso di opere di Cattaneo, Gioberti, Guerrazzi, Tommaseo, La Farina, Balbo, D’Azeglio, Ferrari, e di altri ‘sorvegliati speciali’ dalla censura austriaca, oltre all’impegnativa Storia delle repubbliche italiane, in sedici volumi, del ginevrino Simonde de Sismondi, non gradita alla Chiesa di Roma.
Nel suo Daniele Manin Rovani rievoca, con infrenabile empito, la proclamazione della Repubblica di Venezia della quale è stato testimone: «Chi non si trovò nella piazza San Marco il 22 marzo del 1848, dopo che Daniele Manin ebbe proclamata la repubblica, non provò forse ancora la più forte sensazione, nemmeno, oseremmo dire, se fosse possibile, nemmeno gli eroi delle cinque giornate milanesi alle prime aure di libertà in sull’alba del 23 marzo. (…). Quando di sotto alle aquile in un baleno atterrate e scomparse quasi per arte d’incanto, si vide balzar fuori l’alato leone di bronzo, che non si era osato distruggere, e sulle antenne ad un punto atterrate e svestite dalla bandiera non nostra e ad un punto rialzate, sventolò il vessillo rosso-amaranto del vetusto San Marco, e tutte le campane delle chiese della storica Vinegia risposero in allegro e vasto concento ai più profondi rintocchi del maggior campanile, che primo aveva comunicato ai venti la novella inaspettata, e sulla piazza un popolo fittissimo si vide inginocchiato innanzi alla Metropolitana, perché nell’avvenimento straordinario, più che la virtù propria, gli pareva di vedere il dito del Dio degli eserciti; – quando si ebbe la sorte di assistere a questo continuo prodigio, anche ora, pensandovi, il sangue trabocca nel cuore, e la memoria ha bisogno di velarsi un tratto perché il giudizio riprenda la sua calma».
Rovani coglie l’occasione per richiamare l’ascendente esercitato sui giovani da Carlo Cattaneo: «Lo scoppio generale della rivoluzione italiana non era che una lontana speranza, i nomi di Mazzini, Mamiani, Guerrazzi, Gioberti, Tommaseo erano quotidianamente ripetuti e additati siccome i futuri condottieri dell’invocata battaglia (…) e per parlare anche di taluno a cui gli sguardi della gioventù volente erano continuamente rivolti, e che poi, per opposizione quasi parrebbe espressa dalla fortuna che volle rovinate le cose nostre, dovette rimanersi in ozio, dopo d’aver dirette le più gloriose giornate della rivolta popolare; farebbe opera ben utile chi facesse noto all’Europa non chiedente, la forza versatile dell’ingegno e il vastissimo sapere di Carlo Cattaneo, milanese, ingegno e sapere distillati, se non in opere di grossa mole, in variatissimi lavori d’ogni scienza, d’ogni arte, d’ogni materia, perché a quell’ingegno prodigioso diventa famigliare qualsiasi cosa soltanto ch’ei la tenti.(…).
S’egli è vero che il perfetto uomo di Stato dev’essere il complesso più armonico delle facoltà dell’intelligenza e della sapienza più varia, Carlo Cattaneo era l’uomo nato per governare la Lombardia e per guidare il popolo a compiere la sua vittoria. Ma la fortuna non lo volle permettere».[10]
Non dimentica Rovani di sottolineare il ruolo che alla base della teoria federativa di Cattaneo svolge la questione della lingua: «Nelle questioni grammaticali, e sulla lingua italiana (nelle quali i nostri compatriotti di Trenta anni fa s’infervoravano come ora noi per la causa della libertà nazionale) tenne per la più ampia libertà e dichiarò fonti della lingua comune i dialetti tutti d’Italia, a differenza di quelli che volevano la nostra lingua fosse attinta alla sola Firenze. Era, come vedete, anche in questo la libertà delle provincie, che sosteneva contro l’assorbimento esagerato d’una capitale, e chi sa! Talvolta i più serii effetti hanno debolissimi principii, la teoria della federazione politica cominciò ad allignare nel Cattaneo dalle discussioni della lingua».[11]
La memoria storica Daniel Manin del 1850 offre di fatto a Rovani l’opportunità di sottolineare la sua totale condivisione della linea di pensiero di Cattaneo lungo la quale si muoverà con coerenza in tutto il suo percorso successivo.
A differenza di Mazzini il quale, pur di realizzare il fine supremo, l’unità e l’indipendenza dell’Italia, è disponibile anche alla collaborazione col Piemonte sabaudo, Cattaneo non accetta compromessi: ritiene Repubblica e Democrazia beni non negoziabili, quindi, di fronte a un processo di unificazione che si va risolvendo in una annessione alla monarchia dei Savoia, accetta la inevitabile emarginazione dalla lotta politica.
Sulla stessa linea Rovani il quale nell’autunno 1850 rientra amareggiato a Milano deciso a rinunciare a un coinvolgimento diretto nell’agone politico per dedicarsi a tempo pieno alla letteratura.
È tuttavia la sua “una letteratura che combatte”, secondo quanto recitano le dossiane Note azzurre: non si ripropone come romanziere ma si spende in una attività di saggista e critico militante a totale apertura di compasso, dalla letteratura alla musica, alle arti figurative, alle questioni sociali.
Intensa la sua collaborazione dal 1851 alla “I.R. Gazzetta Ufficiale di Milano”, organo di stampa dell’amministrazione asburgica, per la quale Rovani non si sottrae, nel 1857, all’incarico di redigere la cronistoria del viaggio nel Lombardo-Veneto, dall’11 gennaio al 2 marzo, dell’imperatore Francesco Giuseppe e di sua moglie, con la conseguente, inevitabile, presa di distanza di molti compagni di strada della prima ora.[12]
Carlo Dossi riferisce dell’indignazione del pittore Gerolamo Induno il quale, vedendolo entrare nel suo studio, non esita a insolentirlo: «Cossa el fa lu chi? Ch’el vaga di so Tedesch».[13]
In realtà l’accettazione da parte di Rovani di quell’ incarico non è in contraddizione con l’insegnamento di Cattaneo, il cui disegno di una Italia laica, democratica e repubblicana, nell’ambito di una federazione di stati indipendenti, Stati Uniti d’Europa, non esclude la possibilità che sia lo stesso imperatore austroungarico a concedere autonomia alle singole nazionalità.
Rovani tuttavia mostra di averne riportato un inguaribile sentimento di colpevolezza se, a distanza di un decennio, nell’avvio del romanzo La Libia d’oro, richiamando la Cantata di Rossini, eseguita nel Teatro Filarmonico di Verona la sera del 10 dicembre 1822, in occasione del Congresso promosso dalla Santa Alleanza, non fa a meno di sottolineare: «La poesia era del librettista Gaetano Rossi, tanto intraprendente galantuomo quanto spietato verseggiatore; ma la musica, pur troppo, era di Rossini, il già tanto celebre maestro, il quale, come avrebbe potuto involarsi ad un invito che somigliava a un’intimazione? Non mai però egli scrisse note men rossiniane di quelle: il qual fatto, se prova la mancanza d’inspirazione, prova eziandio che il tema non gli piaceva punto»[14].
Un escamotage per render noto che egli stesso ha accettato quell’incarico nel 1857 perché costretto?
Resta il fatto che quella scelta deve aver contribuito in misura non trascurabile a rendere particolarmente tormentato il suo successivo percorso artistico segnato peraltro da una ripresa della produzione narrativa secondo modalità del tutto nuove rispetto a quella, di palese ascendenza manzoniana, della prima stagione tra il 1839 e il 1846.
Un ruolo niente affatto secondario nelle modalità del suo ritorno tra il 1856 e il 1857 alla narrativa è l’incontro con Francesco Lucca, l’editore musicale milanese ‘responsabile’ della diffusione in Italia di compositori stranieri quali Auber, Halévy, Gounod, Meyerbeer e in particolare, dal 1868, di Richard Wagner.[15]
Formatosi come incisore di musica nella Casa Editrice Ricordi, nel 1825 Francesco Lucca si era trasferito in Germania per acquisire nuove tecniche nell’ambito dell’editoria musicale e, tornato a Milano nel 1828, aveva deciso di intraprendere autonomamente l’attività di editore musicale, privilegiando, almeno all’inizio, la musica strumentale.
Dal 1833 e per oltre trent’anni il nome della sua casa editrice appare affiancato a quello della Euterpe Ticinese, un’associazione di musicisti amatoriali costituitasi a Chiasso allo scopo di vendere, tramite abbonamento, «quanto di più applaudito si produrrà tanto in Italia quanto presso qualunque altra nazione», come si legge nella “Gazzetta ticinese” del 20 ottobre 1833.
Nel corso degli anni Quaranta entra progressivamente nel raggio di interesse della Casa editrice Lucca il repertorio operistico di compositori italiani, di Giuseppe Verdi in primo luogo, da cui il conflitto con Casa Ricordi, che considera quel repertorio suo appannaggio.
C’è di più: nel 1847 Francesco Lucca decide di affiancare all’attività della casa editrice un periodico con cadenza settimanale e corrispondenti da Londra, Parigi e Vienna, “L’Italia musicale”, acuendo il contrasto con la potente casa editrice musicale milanese che dal 1842 pubblica “La Gazzetta musicale di Milano”.[16]
Rovani, presente fin dall’inizio con la rubrica L’arte e gli artisti contemporanei, il cui primo articolo, dedicato a Carlo Arienti, è nel fascicolo del 24 novembre 1847, contribuisce in misura consistente a dare la linea alla rivista intervenendo con recensioni e saggi molto argomentati, in ambito non solo musicale, fino alla chiusura nel 1859.
È del 1857 la sua riflessione, Dello stato attuale del teatro in Italia, in cui indica nelle opere di Rossini e Bellini l’espressione più alta del melodramma italiano: «Non poniamo il punto massimo dell’arte musicale e del dramma per musica né al tempo di Marcello, né a quello di Hasse, e nemmeno a quello, quantunque assai splendido dei maestri napoletani, Scarlatti, Porpora, Durante, Leo, Jommelli, Piccinni, Paisiello, ecc, ecc. No, tutti questi uomini illustri furono grandemente infaticabili per preparare gli elementi di Rossini e Bellini, che è il periodo culminante. Con questi due, infatti, e cogli altri maestri che necessariamente furono trascinati nella loro imitazione, l’opera in musica e il dramma musicale salì a quel punto, oltre il quale non è possibile che la decadenza o il traviamento. (…). V’è un cerchio dell’arte fuori del quale, se pure ci può essere il prodigio delle difficoltà superate, v’è il manierismo e l’assurdo».[17]
Di fatto è Rossini l’unico operista italiano che Rovani ritenga in grado di superare indenne quella diatriba tra melodramma italiano e dramma musicale tedesco, che cambierà di tono e intensità con l’irruzione sulla scena musicale delle rivoluzionarie teorie di Richard Wagner affidate ai saggi del triennio zurighese 1849 / ’51.[18]
Si direbbe che nel rimarchevole spazio che Rovani concede al grande pesarese sia nella sua riflessione critica che nei romanzi della stagione 1856 – 1873, in particolare in Cento anni, sia possibile leggere una indiretta risposta al violentissimo j’accuse lanciato da Wagner contro il melodramma italiano.
Si ripercorra il passaggio in cui entra in scena nelle pagine finali del romanzo un Rossini osannato dal pubblico parigino: «Era la mezzanotte del 10 agosto 1829; una folla immensa erasi raccolta sul Boulevard des Variétés, innanzi alla casa di Rossini, essendo corsa la voce che gli artisti dell’Opéra volevano offrire una serenata al re della musica contemporanea, all’autore del Guglielmo Tell. A mezzanotte infatti cantanti e suonatori occupavano una delle terrazze dell’elegante abitazione di Rossini, e allora al tumulto popolare della folla impaziente successe il più profondo silenzio. L’orchestra incominciò coll’eseguire la stretta della sinfonia del Guglielmo Tell, che, ridomandata a forti grida, venne di nuovo eseguita e di nuovo ricoperta d’applausi. (…).
La notte molle, il cielo stellato, la musica incantevole eseguita con amore speciale, l’attenzione religiosa d’un intero popolo di dilettanti entusiasti, tutto concorse a rendere straordinaria e solenne quella festa del genio, la quale era nel tempo stesso la festa dell’addio; ché Rossini doveva fra poco lasciar la Francia»[19].
Quindi, a proposito del Guglielmo Tell, Rovani fa dire a Giunio Baroggi, uno dei suoi alter ego nel romanzo: «Sì, io sono felice che codesta specie di Bibbia dell’arte musicale sia uscita dalla testa prodigiosa di Rossini; ma non sarò mai per sacrificarle il Mosè, dove il genio lampeggia di una luce ancora più abbagliante, abbagliante sì che par quasi eccedere la natura umana».[20]
Al di là dei toni enfatici ai quali si lascia andare nel romanzo, Rovani dimostra, nelle diverse recensioni dedicate alle prime di opere rossiniane nel Teatro alla Scala e soprattutto nel saggio La mente di Rossini, lucida consapevolezza della dicotomia di accenti, modernissima, del linguaggio rossiniano di cui dà prova particolarmente persuasiva il Mosè in Egitto: belcanto e dramma uniti in una felicissima e audace sintesi già nella edizione napoletana del 1819.[21]
Certamente non sfuggono al critico le contraddizioni e ambiguità di Rossini, settecentista attardato e rivoluzionario innovatore, neoclassico e protoromantico, e tuttavia ritiene che «(…) a questa maschera sfuggente si può dare coerenza ravvisando in lui, in particolare nelle sue opere buffe, l’interprete di un disincanto scettico e amarognolo, del disincanto di chi non si fa illusioni sulla fine dei miti della ragione ma al contempo non crede ai nuovi entusiasmi per le “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità».[22]
Un ritratto che è al contempo un autoritratto: ironia e scettico disincanto segnano infatti la sua ultima stagione narrativa in cui si configura una visione laica e relativistica maturata nel corso di una riflessione critica, a totale apertura di compasso, particolarmente intensa nel decennio 1846 – ’56.
Di qui anche una sorta di resistenza alle ‘fame consacrate’ e, nell’ ambito del teatro in musica, una invalicabile resistenza a Giuseppe Verdi, divenuto un personaggio eroico nell’Italia risorgimentale, al quale Rovani non risparmia giudizi severi fino allo stucchevole dileggio per le sue origini contadine, di cui riferisce Carlo Dossi: «(…) Verdi lo ammirava, ma lo avrebbe voluto un po’ meno villano. Ne cantava a mezza voce qualche brano dei migliori come per persuadere se stesso di avere torto, ma poi diceva: se ghe sent denter la vanga (e faceva insieme col piede l’atto di vangare)».
Non è improbabile che sia stato lo stesso Rovani a suggerire a Francesco Lucca di riprodurre sull’ “Italia musicale”, nell’autunno 1850, gli astiosi articoli antiverdiani pubblicati da Fétis sulla “Revue et Gazette musicale de Paris” ed è attribuibile a lui l’articolo non firmato, La critica straniera e la musica italiana, nei fascicoli del 16 e 24 marzo 1855 dell’ “Italia musicale”, che recita: “Quando l’iperboreo signor Fétis (…) fece a bella posta un viaggio in Italia, per venirci a rinfacciare di aver applaudito la musica del Verdi, di cui, a suo avviso, non fu mai intelletto più sterile, più impossente, più meschino, noi non abbiamo esitato a prenderne le difese, prima, perché ci pareva debito di buoni italiani; secondo, perché l’accusa ci sembrava ingiusta quanto virulenta; terzo, perché, volere o non volere, il Verdi è il più forte ingegno, che, dopo i maggiori luminari che abbiam nominato, scrive ancor musica che ha l’arcano prestigio di piacere. La sua vena non è quella di Rossini, la sua sensibilità non è quella di Mercadante; ma, come Dio l’ha fatto, egli ha certe sue qualità, certo carattere suo, che, se non ne formano un genio, ne formano un talento assai distinto, il quale avrebbe potuto esser più grande, ove la sua educazione letteraria e artistica fosse stata meno imperfetta”.
Una difesa che in realtà si lascia leggere piuttosto come cartina tornasole di quelle che Rovani ritiene ‘insufficienze’ dell’operismo verdiano, in primo luogo il difetto di originalità.
Non è casuale che nelle sue recensioni occasionate da esecuzioni scaligere di opere verdiane non tralasci mai di sottolineare che il ‘maestro di Busseto’, nei momenti artisticamente più felici, non è più che un epigono di Rossini. E il saggio stesso che gli dedica nel primo volume della Storia delle lettere e delle arti in Italia giusta le loro reciproche rispondenze, ordinata nelle vite e nei ritratti degli uomini illustri dal sec. XIII° fino ai nostri giorni per cura di Giuseppe Rovani, del 1855, è tutto un succedersi di citazioni da opere rossiniane a testimonianza dei debiti contratti da Verdi con il grande pesarese: «Verdi, a nostro giudizio, ha un carattere proprio, ma non è originale; il suo stile, se ci si passa l’espressione, è di ordine composito. (…).
Nel Nabucco infatti l’elemento capitale è di Rossini (…).
Il coro d’introduzione del Nabucco è improntato tutto quanto, e persino con eccessiva devozione, sul coro d’introduzione del Mosè; non parliamo già della frase e del motivo, ma della condotta, dell’andamento, che è ciò che costituisce l’imitazione. Un maestro può trovare un motivo nuovo ed è un imitatore se lo adopera cogli altrui procedimenti, mentre invece non toglie nulla alla propria originalità, se, cogliendo un motivo nel campo altrui, lo involge nel proprio stile. – Rossini pigliando idee da tutto e da tutti, pur non uscì mai dalla propria originalità. – Tutto il terzetto dell’atto primo è modellato sullo stampo dell’O nume benefico della Gazza ladra. Lo splendido finale dell’atto secondo: S’appressan gl’istanti, è lavorato tutto quanto nell’officina rossiniana»[23].
E, sempre in Nabucco, riguardo allo straordinario effetto suscitato dalle parole di risoluzione della profezia:
“Niuna pietra ove sorse l’altera
Babilonia all’estraneo dirà”
fa rilevare Rovani: «Giustizia vuole che se ne dia il merito a Mercadante. Quell’effetto pressoché identico fu trovato prima da esso e applicato al sublime pezzo della Vestale: Spargiam d’immonda cenere; e giustizia vuole altresì che di molti altri effetti, di cui per tanto tempo, dagli entusiasti ingenui, fu creduto introduttore primo il maestro Verdi, sia dato il vanto a Mercadante: il vanto, intendiamoci, di una più larga applicazione; perché anch’esso andò a prender acqua nella fontana massima di Rossini, segnatamente nel Guglielmo Tell, opera immensa, dove il Giove Olimpico della musica, più che del pubblico, s’affaticò a fare il servigio dei maestri.
Mercadante, dunque, tenne quegli effetti da Rossini, e fu il primo ad adoperarli largamente nelle opere della sua seconda maniera, quali sono il Giuramento, la Vestale, il Bravo; di seconda mano le passò poi a Verdi, il quale ne usò con tale frequenza ed intemperanza che ne fu creduto il padrone (…).
Tornando ora al Nabucco, noi che non siamo disposti ad adulare il maestro Verdi, crediamo di poter dire che, per la grandiosità dello stile, per la consistente virilità del concetto, per la tinta locale che vi domina da capo a fondo, per il magistero specialissimo onde sono governati i pezzi d’insieme, quantunque sia la prima delle sue opere nate vive, è già tale che vanta una distinzione e un suggello che non ha Mercadante, che non ha Donizetti; quantunque il primo sia più poderoso nella dotta compagine dei suoni, e al secondo abbia arriso un estro amabile, flessuoso e fecondo che Verdi non ha. Ma né la dottrina, né l’estro ponno bastare per costituire l’originalità e l’individualità d’un maestro».[24]
Passando quindi alle due opere successive, Lombardi alla prima crociata e Ernani, Rovani lancia l’affondo conclusivo: «Tenendo conto di queste tre opere, osservate con quell’occhio della critica che non indulge all’artista, né si lascia placare dalle raccomandazioni del pubblico, e considerate dal lato del miglioramento che di solito assume un autore lavorando, non ci pare ch’esse rivelino un progresso nella mente dell’autore e nello stile e nelle sue modalità. Bensì ne pare essere progressiva soltanto l’apparenza dell’originalità; ma l’estetica è costretta a rifiutare quella specie d’originalità che vive a spese della bellezza e della perfezione»[25].
E subito dopo il giudizio tranchant: «Più Verdi si allontana dal suo grande modello, più va scivolando verso la corruzione dell’arte».[26]
È noto che le resistenze di Rovani al genio verdiano, oltre a trovare solida sponda tra gli intellettuali che gravitano intorno alla casa editrice di Francesco Lucca, il cui rapporto con Verdi registra le prime smagliature già intorno al 1848 salvo poi interrompersi del tutto nel 1850, sono condivise dai giovani artisti della Scapigliatura lombarda e in particolare da Arrigo Boito, il poeta e musicista, tra i primi e più convinti sostenitori delle teorie di Wagner, che in un inno del 1863 si spinge fino ad accusare il compositore di Busseto di aver “bruttato l’altare dell’arte italiana”.[27]
E se Rovani, recensendo per “La Gazzetta di Milano” del 6 marzo 1868 la prima alla Scala del Mefistofele di Boito, risoltasi in un clamoroso insuccesso, si mette in linea con i detrattori più astiosi, è soltanto perché avverte che in quell’opera quel che è seriamente messo in gioco è il sopravvivere stesso del genere melodramma: «Ma il Boito, (…), seguace di un’arte che ama di essere tutta irta di numeri e scabra di inutili difficoltà algebriche, spaventò le idee melodiche al punto che queste, tant’era il loro sgomento, non si lasciarono mai vedere un istante».
Pur apprezzando il libretto, per la efficace “concentrazione del dramma originale”, Rovani non può condividere la resa incondizionata di Boito alle teorie wagneriane, nonostante da esse discendano molte delle argomentazioni con cui egli stesso denuncia le ‘insufficienze’ degli operisti italiani contemporanei, di Verdi in primo luogo.
Si direbbe che sia proprio la assoluta indisponibilità a sancire la fine del melodramma italiano ad agire in funzione di una messa al centro da parte di Rovani del genio rossiniano quale inaggirabile diga e in questa direzione può sembrare paradossale l’autorevole avallo dello stesso Wagner se è vero che, nel corso della celebre visita parigina del 1860 a Rossini, ha richiamato la scena delle tenebre nel Mosè come una sorta di prototipo della musica dell’avvenire.[28]
Resta il fatto che già nei primissimi anni Cinquanta le teorie wagneriane nell’ambito del teatro in musica circolano diffusamente nella Milano musicale che gravita intorno alla casa editrice Lucca e, anche se ragioni di opportunità politica impediscono un libero dibattito, Rovani deve essere stato tra i più pronti a recepirne la straordinaria forza rivoluzionaria.
Si direbbe che il titolo stesso, Poesia, Musica, Plastica, di una sua argomentata riflessione del 1851, nei fascicoli del 5, 12, 26 marzo e 2 aprile dell’”Italia musicale”, richiami la teoria wagneriana della fusione delle arti, quale si delinea negli scritti wagneriani del triennio 1849/’51, in particolare in Opera d’arte dell’avvenire e Opera e dramma, letti nella loro prima edizione tedesca, le cui ricadute sono senz’altro significative, al di là di una sostanziale incomprensione delle ragioni di fondo, negli stessi romanzi della maturità oltreché nella sua attività di critico militante.
È del resto impensabile che un cultore avveduto e appassionato del melodramma, ma in primo luogo un letterato, uno scrittore convinto della superiorità dell’arte della parola su tutti gli altri linguaggi artistici, non si sia sentito immediatamente chiamato in causa di fronte a una concezione del teatro in musica che, oltre a costituire una specie di summa di tutte le argomentazioni sostenute dai fautori del dramma musicale nelle loro secolari polemiche antimelodrammatiche, mira a un tipo d’opera in cui i valori poetici del libretto non siano schiacciati dalle esigenze melodico-vocali, come avviene nel melodramma italiano, e dove sia praticata una collaborazione tra le diverse arti in funzione di un’opera d’arte totale.[29]
Si vuol dire che, al di là del non trascurabile ruolo che la concezione wagneriana dell’opera d’arte totale può aver giocato nella stessa decisione di Rovani di tornare al romanzo nel 1856 con una disposizione affatto nuova sia rispetto alla prima stagione degli anni Quaranta, sia rispetto alla narrativa italiana del secondo Ottocento, resta il fatto che nell’ambito del teatro in musica, nonostante la intransigente difesa del melodramma italiano, egli abbia acquistato progressiva consapevolezza che l’incapsulamento dell’opera lirica in due stili antitetici, recitativo e canto spiegato, impedisce lo sviluppo della vicenda scenica e che deve essere restituito al libretto un ruolo non subalterno alla musica.
Si direbbe che l’esigenza di sottolineare una incrollabile fede nel primato della parola letteraria sugli altri linguaggi artistici presieda alla attività di Rovani e saggista e critico militante.
Si ripercorra la sua recensione, nel fascicolo del 15 marzo 1855 dell’ “Italia musicale”, alla esecuzione scaligera del Rigoletto, l’opera verdiana tratta dal dramma Le roi s’amuse di Victor Hugo: «Ora nel melodramma di Cammarano questo personaggio fu levato di pianta, come una cosa importuna e refrattaria alle convenienze dell’opera in musica. Tanto è arduo aprir la via alle novità utili e continuamente invocate dal senso comune, pel motivo che gli uomini dell’arte sono i più costanti a far loro la guerra. Facciamo ora dunque che un poeta lirico riduca in melodramma, ma senza alcuna alterazione sostanziale, il dramma Ruy Blas, e ne uscirà il libretto d’opera più interessante e più vario e più ricco di colori e di contrasti che mai non siasi fatto infino ad oggi; e se la fortuna desse che un maestro d’ingegno musicasse caratteristicamente un tal libro, ne uscirebbe una nuova foggia d’opera e un nuovo stile di musica, che per l’innesto della commedia nella tragedia gioverebbe a conservare la fisionomia italiana alla musica, dovendo essa necessariamente influire, per la necessaria, non diremo unità, ma intonazione e fusione generale dello stile, a togliere quelle crudezze e quelle esagerazioni asmatiche del dramma convulso d’oggidi che è la rovina dell’arte. Il Rigoletto di Verdi, ad essere sinceri, è un tentativo di trasformazione. Ma il miscuglio di buffo e di serio, anzi il carattere tragico su cui s’innesta l’ilarità mendicata dello sciagurato buffone, ha impedito che la trasformazione fosse in tutto un’utile novità».[30]
È sempre Verdi il bersaglio polemico di Rovani.
E tuttavia è assai probabile che sarebbe stato costretto a correggere il suo giudizio se la morte nel 1874 non gli avesse impedito di conoscere l’ultima stagione verdiana, di assistere alla esecuzione del Falstaff, l’opera che si guadagnerà l’ascolto stupefatto di un critico musicale esigentissimo quale Alberto Savinio che nel suo Ascolto il tuo cuore, città, il romanzo/saggio del 1944, confessa: «Ho visitato per la prima volta il Museo della Scala nel novembre 1939. Traverso al trotto le sale che m’interessano meno, arrivo nella sala Verdi. Trovo la spinetta con tastiera rossa, sulla quale Verdi studiò bambino; trovo il cembalo di marca Mathias Sommer in Wien, usato da Verdi a Milano; trovo l’Erard sul quale Verdi compose il Falstaff (…).
Chiudo gli occhi e rivedo nel Museo della Scala il pianoforte sul quale le ottantenni mani, vecchie e rugose come zampe di tartaruga, composero il Falstaff. È un Erard: il pianoforte più delicato, più “pianistico” del pianistico universo. (…).
Altre opere si ricordano e poi si dimenticano, poi si torna a ricordarle sia intere, sia partitamente alcune delle loro membra: il solo Falstaff non ci abbandona mai ma ci accompagna sempre, e partecipa al tempo del nostro cuore, scorre al ritmo di quel misterioso metronomo che di notte e di giorno, da svegli e nel sonno, al lavoro o in riposo, a piedi o in tram, rintocca ininterrottamente nella nostra testa.
Sapeva Verdi di dare ragione nel Falstaff, e a tanta distanza di secoli, a Eraclito d’Efeso e al suo “panta rei”?
Il finale “gioioso” del Falstaff è in verità la voce più sconsolata che abbia mai echeggiato al nostro orecchio; e ci vuole un cuore di bronzo, una mente d’acciaio per abbandonarsi al flusso ininterrotto e senza ritorno del Falstaff, vedere i nostri affetti allontanarsi, le nostre idee, le nostre speranze, i nostri convincimenti più fermi, noi stessi diventare sempre più piccoli, ridurci a un puntino minuscolo, sparire; quando è tanto più facile invece aggregarsi a Wagner, e approfittare di straforo della sua “salvazione”, cioè a dire del suo cristianesimo comodo, familiare, borghese»[31].
Quindi Savinio istituisce un confronto tra il Parsifal e il Falstaff: «Il Parsifal comincia e finisce con la bemol maggiore, che è una tonalità grassa e dolciastra, una tonalità alla crema, una tonalità al lattemiele; mentre il Falstaff comincia e finisce in do maggiore, ossia nella tonalità elementare per eccellenza, la più asciutta, la più pulita, la più “da disegno”.
Infatti mentre il Parsifal è ancora una pittura a olio, spessa di pasta opaca e stesa sopra una grassa imprimitura a gesso e colla, il Falstaff è una tempera al miele stesa a velatura sopra una imprimitura compatta e levigatissima, una pittura su marmo; e talvolta è soltanto un acquerello, come nella seconda parte del primo atto, e non a caso, se l’acquerello era, nell’Ottocento, la pittura prediletta dagli Inglesi; e talvolta, come nella prima parte del primo atto e nella seconda del terzo (balletto), è un semplice disegno a matita.
Grande importanza ha, a mio parere, questo affinarsi, questo inserenirsi, questo ingiocondarsi dell’artista in vecchiaia, che è poi il sentimento che egli ha di ritrovare il paradiso perduto. Le ultime pennellate di Renoir sono anche le più fluide, le più leggere della sua lunga vita di pittore; e i suoi accenti più cordiali, più felici, Verdi li ha dati nel Falstaff; mentre Wagner, anche se fino all’ultimo continuò a poggiare il testone fulvo sul cuore della sua diletta Cosima; non ritrovò più nel crepuscolo della sua vita quell’umore aurorale e castissimo, che gl’ispirò l’idillio di Sigfrido.
Questo continuo raffronto Verdi-Wagner è antipatico ma fatale. È nell’aria. Lo sento io e lo sentono altri.
(…) è soltanto nel Falstaff che un uomo è riuscito a fare musica col marmo.
Il Falstaff non è l’affinamento di un uomo soltanto, ma di un’epoca. È tutto il melodramma dell’Ottocento, così goffo in gioventù e bitorzoluto, e maleducato, incerto dove posare i piedi e dove porre le sue mani rosse come barbabietole e penzolanti fuori delle maniche troppo corte, che si affina e scrive con le note sul pentagramma, quegli stessi disegni a filo che Ingres scriveva in punta di matita».[32]
Molto severo infatti era stato il giudizio di Savinio nel fascicolo del 19 ottobre 1940 di “Oggi” a proposito del Trovatore: «A noi, l’ingenuità, l’imperfetta coscienza dell’artista danno un grave sconforto, un’amarezza profonda. Una coscienza perfetta non avrebbe lasciato passare certi inutili rulli di timpano, certe miserabili armonie, certi unisoni di latta. E avrebbe impedito anche gli errori di gusto, come il fortissimo a conclusione del canto solitario del Trovatore, nel primo atto, il quale attesta oltre a tutto che Verdi inventò questo canto, lo scrisse, “ma non lo capì”».
E due anni dopo, in Narrate, uomini, la vostra storia, Savinio definisce Verdi un “Uomo Quercia” che ha scritto musica «plasmata e riplasmata con forti e grosse mani di rurale, impastata con gli elementi stessi della terra».
Ma in “Il popolo di Roma” del 21 febbraio 1943, chiudendo la sua recensione in occasione della rappresentazione del Rigoletto. «Diciamo tutto il nostro pensiero: il Falstaff riscatta e “disinfetta” l’opera precedente di Verdi».
Rovani avrebbe senz’altro sottoscritto non senza tuttavia avere ancora una volta ammonito che dietro il miglior Verdi è pur sempre da cercare il grande Rossini e forse questa volta, contrariamente a quanto gli era accaduto con il Mefistofele di Boito, non gli sarebbe dispiaciuto riconoscere accanto al grande pesarese l’ascendente del genio di Lipsia.
[1]C. Michelstaedter, Le Confessioni e la turba di Gorizia, a c. di A. Cavaglion e A. Michelis, Torino, Aragno editore, 2010.
[2] Intorno agli anni Cinquanta Wagner teorico appariva ben più importante del Wagner creatore: la sua concezione teatrale cambiava per sempre l’idea stessa di teatro.
[3] C. Dossi, Note azzurre, Milano, Adelphi, 1964, nota N° 3859, p. 439.
[4] P. Gobetti, Risorgimento senza eroi,Torino, Einaudi, 1976, p. 53.
[5] G. Debenedetti, Vocazione di Vittorio Alfieri, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 119-120.
[6] Ivi p. 157.
[7] La prima puntata di Cento anni, nel fascicolo del 31 dicembre 1856, è una introduzione al romanzo titolata Sinfonia del romanzo. Nella edizione in volume del 1864, nelle edizioni milanesi G. Daelli e C, quel titolo sarà sostituito da Preludio, ancora un termine musicale che sarà utilizzato successivamente per l’introduzione del romanzo, La Libia d’oro, pubblicato a puntate, a partire dal I° gennaio 1865 su quella che dal 1859 non è più la “I.R. Gazzetta Ufficiale di Milano” ma “Gazzetta di Milano”, periodico indipendente.
Sempre nella “Gazzetta di Milano”, nel fascicolo del 27 aprile 1865, Rovani annuncerà l’ultimo suo romanzo, La Gioventù di Giulio Cesare. Scene storiche. Preludio; seguirà una prima puntata nel fascicolo del 3 giugno e, dopo una sospensione di un triennio, in cui escono le varie puntate della Libia d’oro, riprenderà, nel fascicolo del 6 maggio 1869, a pubblicare quel romanzo con il titolo mutato in La giovinezza di Giulio Cesare ossia Tavole di ragguaglio tra gli antichi e i moderni scellerati, che, nella edizione in due volumi (Milano, F. Legros, 1873), diventerà La Giovinezza di Giulio Cesare. Scene romane di Giuseppe Rovani. Non è indizio trascurabile che il sottotitolo Scene storiche, con cui il romanzo era stato annunciato nel fascicolo del 27 aprile 1865, sia definitivamente scomparso tanto nella ripresa del 6 maggio 1869 quanto nella edizione in volume del 1873.
[8] Per le notizie relative agli spostamenti di Rovani nel triennio 1847/’50 cfr. Valentino Scrima, Giuseppe Rovani critico d’arte, Milano, LED Edizioni, 2004, pp. 35/36.
[9] Nel 1851 il mazziniano Luigi Dettesio, un collaboratore della Tipografia particolarmente attivo nello stampare libri, giornali, proclami di patrioti ed esuli, è stato arrestato e in seguito giustiziato. Di qui la decisione da parte delle autorità elvetiche – timorose anche per le forti pressioni austriache – di chiudere nel 1853 la Tipografia.
Nella facciata del palazzo di Capolago, sede della tipografia, una lapide ricorda: “Da questa casa / sede della Tipografia Elvetica / in tempi calamitosi / per duro servaggio / parlò / alto e potente / il pensiero / della redenzione ed unità / d’Italia”.
[10] G. Rovani, Daniele Manin, 1848 – 1849, Capolago, Tipografia Elvetica, 1850, p. 43. A Cattaneo Rovani dedicherà successivamente un ritratto nel IV° vol. della Storia delle Lettere e Arti in Italia giusta le reciproche loro corrispondenze,ordinata nelle vite e nei ritratti degli uomini illustri dal secolo XIII fino ai nostri giorni per cura di Giuseppe Rovani, in 5 volumi, Milano, Borroni e Scotti, 1855 – ‘58.
[11] Ibidem, p. 445
[12] La “I. R. Gazzetta ufficiale di Milano” cessa le pubblicazioni il 4 giugno 1859, giorno della battaglia di Magenta. Già il 6 giugno esce la nuova “Gazzetta di Milano” diretta da Vittorio Pezzini, Antonio Caccianiga, Raffaele Sonzogno e dallo stesso Rovani che ne diventa anche comproprietario.
[13] C. Dossi, Note Azzurre, op. cit., p. 465.
[14] G. Rovani, La Libia d’oro, Roma, Istituto Tipografico Italiano diretto da L. Perelli, 1880, p. 16.
[15] Giovannina Strazza, moglie dell’editore Francesco Lucca e sorella dello scultore Giovanni di cui Rovani è estimatore e amico, è una appassionata sostenitrice di Wagner: sarà lei di fatto l’artefice del contratto, stipulato nel 1868 a Lucerna con Wagner, che assicurerà alla casa editrice la pubblicazione in esclusiva per l’Italia delle opere del grande compositore tedesco. Sarà anche suo il merito della rappresentazione del Lohengrin nel 1871 nel Teatro Comunale di Bologna, la prima opera wagneriana rappresentata in Italia, a più di venti anni dalla esecuzione in Germania, il 28 agosto 1850, con la direzione di Liszt, nel Teatro Granducale di Weimar.
[16] Il primo fascicolo della rivista “L’Italia musicale” esce il 7 luglio 1847. Dal 15 marzo al 21 giugno 1848, sull’onda dei successi del movimento unitario, la rivista cambia il nome in “L’Italia libera”, sottotitolo “Giornale politico, artistico, letterario”. Con il ritorno della dominazione austriaca subisce una temporanea chiusura.
Il 30 gennaio 1850, riprende le pubblicazioni, con ritmo bisettimanale, fino al 23 aprile 1859 e il titolo iniziale “L’Italia musicale”, sottotitolo “Giornale dei teatri, di letteratura, belle arti e varietà”.
[17] Il saggio è pubblicato nei fascicoli del 22 e 29 aprile, 23 e 30 maggio, 24 giugno, 22 e 29 luglio, 22 e 29 agosto, 5 e 16 settembre,1857. Rovani collabora alla rivista fino dal primo fascicolo ma con articoli non firmati. Il suo primo contributo firmato è nel fascicolo del 14 dicembre 1853.
[18] Tra i saggi del triennio zurighese, Das Kunstwerk der Zukunft, Die Kunst und die Revolution, Opera und Drama è assai probabile che sia stato soprattutto il primo, letto subito dopo la prima edizione tedesca fatta circolare presumibilmente ad opera dello stesso Francesco Lucca, a riscuotere la massima attenzione da parte di Rovani. L’idea della collaborazione tra le ‘tre arti’, che è a fondamento della concezione wagneriana dell’opera d’arte totale, formulata in quel saggio, è di fatto una sorta di motivo conduttore dell’opera critica e narrativa di Rovani a partire dai primi anni Cinquanta.
[19] G. Rovani, Cento anni, Milano, Garzanti, 1985, pp. 1209-1210.
[20] Ivi p. 1211.
[21] Della modernità del linguaggio rossiniano, di cui dà prova il Mosè, ha consapevolezza Honoré de Balzac, il quale accorre a tutte le repliche di quell’opera, nella edizione napoletana del 1819, rimasta in repertorio nel Théatre Italien di Parigi.
[22] G. Rovani, Cento anni, op. cit., p. 47.
[23] G. Rovani, La mente di Gioacchino Rossini, Milano, Ricordi, 1871; quindi in Le Tre Arti considerate in alcuni illustri contemporanei, a cura di L. Perelli, Milano, Treves, 1874, pp.70-71; Il saggio su Rossini era già presente in Storia delle lettere e delle arti in Italia giusta le loro reciproche rispondenze, ordinata nelle vite e nei ritratti degli uomini illustri dal secolo XIII° fino ai nostri giorni per cura di Giuseppe Rovani, Milano, Tip. Borroni e Scotti, vol.1 – IV, 1855-’58.
[24] Ivi p.72.
[25] Ivi p. 73.
[26] Ivi p.75. Cfr. il saggio La critica straniera e la musica italiana, nei fascicoli del 16 e 24 marzo 1855 dell’ “Italia musicale”, non firmato, in risposta al famoso articolo antiverdiano di Fétis.
[27] Il rapporto di Arrigo Boito con Giuseppe Verdi si ricomporrà soltanto nel corso degli anni Settanta quando lo stesso Boito diventerà il librettista e di Otello e dell’opera buffa Falstaff con cui si chiude il percorso artistico verdiano.
[28] Nel marzo1860, secondo il biografo Edmond Michotte, Rossini riceve a Parigi, nella sua casa al n° 2 della Chaussé d’Antin, la visita di Richard Wagner.
[29] Il dramma musicale ha come obiettivo la ‘verità drammatica’ e cioè uno stretto rapporto con la realtà o, quanto meno, con mondi e personaggi irreali ragguagliati, nel comportamento e nell’espressione, a una condotta e a un linguaggio realistici quindi, sostituendo al canto spiegato una declamazione ariosa, esso tende, attraverso il risalto dato al recitativo e al fatto scenico, alla plausibilità storico-psicologica degli ambienti e dei personaggi portati in scena, mentre nel melodramma italiano, che mira a concentrare l’attenzione e le emozioni sulla melodia vocale, il recitativo porta avanti sbrigativamente e con formule per lo più stereotipate la vicenda scenica e allorché questa determina in uno o più personaggi un certo tipo di sentimenti e di passioni, scocca il momento lirico della melodia vocale e del canto spiegato.
[30] G. Rovani, Rigoletto di Verdi in “L’Italia musicale”, 15 marzo, 1855.
[31] A. Savinio, Ascolto il tuo cuore, città, Milano, Adelphi, 1984, pp. 263-267.
[32] Antitetico il giudizio di Renato Barilli il quale in Il paese del melodramma (Lanciano, Carabba, 1929) dichiara il Falstaff opera senile e accademica, fredda dimostrazione di mestiere che piace solo ai “professori” e ai “critici”, ma opera priva di vita e tedesca.