Dal volume di Rosita Tordi Castria Cinque Studi, Roma, Bulzoni, 2010, pagg. 51-60:
Nel disegno saviniano di una Europa di città, quale si va precisando nella sua riflessione degli anni Quaranta, peculiare il rilievo attribuito alla città di Milano.
Ricordando, in un articolo per il “Corriere d’informazione” del 16/17 luglio 1951, i suoi primi passaggi milanesi, nel 1906 e nel 1908, stendhalianamente Savinio confessa: «Milano, città del mio destino». E subito dopo a giustificare la brevità dei suoi soggiorni: «Nella città del proprio destino non ci si abita: costringerebbe a una insostenibile tensione. Ci si torna e ci si ritorna. […]. Nel settembre 1906, al teatro Dal Verme, primo spettacolo serio della mia vita: La dannazione di Faust. Dirigeva Tullio Serafin. […].
Avevo quindici anni».
Ed è incontro, quello con il personaggio di Goethe, destinato ad agire in profondità nell’immaginario di Savinio: la dannazione di Faust sarà il tema di un suo racconto-saggio per la rubrica Osservatorio della rivista milanese “Primato artistico italiano” del maggio-giugno 1920.
Altrettanto denso di conseguenze il successivo passaggio milanese:
«Il mio primo ritorno a Milano è del 1908. Segretamente autorizzato da Giulio Gatti e nascosto nel fondo di un palchetto alla Scala, sentivo Arturo Toscanini provare il Crepuscolo degli Dei. La straordinaria dolcezza dei violini che a Sigfrido rammentano il murmure del bosco, mi tirava fuori del palchetto». Riconoscibile eco della forte emozione di quell’ascolto può ritrovarsi nel lemma germanesimo della sua personalissima Nuova Enciclopedia: «Il 12 settembre 1943 – recita l’incipit di quello che è di fatto un racconto-saggio in cui la tragicità del presente è resa ancora più bruciante perché tenuta forzatamente a distanza come è di eventi che oltrepassino la soglia del dire ma dei quali non si riesca a evitare i cupi rintocchi – io ero nella mia casa di Poveromo, in quel di Massa: Mi alzo da letto e apro le persiane: il giorno è ancora bambino e in istato di innocenza. Le cose in questa aura di ingenuità appaiono perfettamente schiette. Tutto è puro, tutto vero. Capisco gli alberi, capisco l’aria, capisco il cielo. La natura si rivela. Ora anche gli uomini probabilmente si capiscono meglio, anche le anime, ma per fortuna sono solo». Ed ecco insinuarsi inatteso il ricordo: «È certamente in ore come questa, perfettamente mattutina, che apparve a Sigfrido il linguaggio degli uccelli». E subito dopo: «Perché ho detto “apparve” e come può un linguaggio ‘apparire’? Eppure si. Ma i sensi solo in questi momenti si affinano fino ad acquistare nuove possibilità. I suoni allora divengono visibili e l’orecchio ‘vede’. Appare il corpo del suono e la sua ossatura».[1]
Al di là del piacere del gioco linguistico, senza dubbio l’incontro con l’opera di Wagner negli anni dell’apprendistato agisce in funzione di un attraversamento simultaneo e di una contaminazione dei diversi ambiti disciplinari che, con adeguati distinguo, sarà connotato caratterizzante del percorso artistico di Savinio.
Il suo debutto nel teatro musicale a Parigi nel 1914 con Les chants de la mi-mort, la cui musica esegue egli stesso nella sede della rivista del circolo di Apollinaire “Les soirées de Paris”, è testimonianza eloquente in questa direzione.
Si delinea fin d’ora uno stile di pensiero che puntigliosamente esorcizza i paradigmi della logica deduttiva: le cose cessano di apparire come estensioni e trasformazioni lineari di un patrimonio formale acquisito, diventando di volta in volta un caso eccezionale, nuovo, non prevedibile né previsto. Singolare contributo teorico in tale direzione uno scritto, titolato Einstein, per “Il Tempo” del 7 luglio 1921 la cui conclusione recita: «Alla luce suscitata dalle recenti scoperte di questo matematico le illustrazioni mitiche, poetiche, filosofiche del microcosmo acquistano un rilievo singolare».
Che Einstein ritenga i postulati della fisica «libere invenzioni della mente umana» e che «niente può combinarsi se non si pecca contro la ragione» è assai più di quel che Savinio si sarebbe aspettato di sentir dichiarare da uno scienziato: è la insperata, autorevolissima conferma della inaffidabilità di ogni percorso del pensiero che sia riconducibile in una circolarità di tipo logico-deduttivo; è la spinta a mantenere aperti sentieri diversi, a fare appello a una miriade di fili tagliati via o solo lasciati da parte.
Convinto assertore che non esista la verità ma piuttosto le verità, Savinio ritiene che soltanto in un ininterrotto processo di transizione e contaminazione possa instaurarsi una razionalità aperta al senso del possibile e del diverso, uno spazio liberato dalle tormentose diatribe arte/scienza, sentimento/intelletto, dominato da uno sguardo inflessibilmente ironico.
In questa direzione esilaranti gli esiti in pittura dove la messa in opera del processo di ibridazione si spinge fino alla rappresentazione di figure composte per metà da mobili e per metà da esseri umani – Poltromamma, Poltrobabbo – o di corpi umani con inquietanti congegni meccanici in luogo della testa la quale, altrettanto spesso, è quella di animali esotici o domestici.
Divertissement di un “dilettante” di genio? È questo ma anche qualcosa d’altro. Savinio si rende lucidamente conto della radicalità delle trasformazioni in atto ed è di quelli che sull’orlo dell’abisso non perdono la testa ma cercano di procurarsi la strumentazione con cui uscire allo scoperto e disegnare la mappa del nuovo territorio. Il letterario gli appare senz’altro lo strumento più idoneo, particolarmente negli anni Quaranta/Cinquanta quando la svolta epocale che caratterizzerà quest’ultimo passaggio di secolo si profila già in tutta la sua radicalità: «La letteratura – scrive nell’articolo Presente, del 12 dicembre 1944 – conosce quello che il presente ignora. La letteratura dice quello che il presente tace».[2]
Cospicua di fatto negli anni Quaranta la sua produzione letteraria: dalle novelle raccolte in Casa “La vita” alle biografie immaginarie di Narrate, Uomini, la vostra storia alle pagine felicemente divaganti di Ascolto il tuo cuore, città a La nostra anima, a Maupassant e l’altro, oltre a una ingente messe di scritti dispersi in quotidiani e riviste.
Di questa stagione è testimonianza paradossale ma singolarmente efficace la sua Nuova Enciclopedia, apparsa sotto forma di articoli nella rivista “Domus” dal gennaio 1941 all’ottobre 1942, quindi nei quotidiani: “La Stampa” dall’aprile 1942 al luglio 1943 e “Il Corriere della Sera” nel biennio 1947-1948. Se il rimando immediato è alla vichiana Scienza nuova e ai grandi protagonisti del libero pensiero, di fatto Savinio non ha alcuna fiducia in un sapere che si appelli al sigillo di una qualsivoglia unità.
A chiarezza delle sue intenzioni, fa precedere la pubblicazione di questi scritti da un eloquente exèrgo: «Sono così scontento delle enciclopedie, che mi sono fatto questa enciclopedia mia propria e per mio uso personale». E trova alleanze insospettabili e straordinariamente autorevoli: «Arturo Schopenhauer era così scontento delle storie della filosofia, che si fece una sua storia della filosofia sua propria e per suo uso personale». A mettere in fuga ogni residuo dubbio sulle finalità dell’opera inserisce anche il lemma enciclopedia che recita: «Enciclopedia significa scienza composta di tutte le cognizioni e di cognizioni omogenee – ‘spiritualmente’ omogenee. […]. Si capisce così l’enciclopedismo dei rinascimentisti, si capisce l’enciclopedismo degli enciclopedisti francesi: non si capisce la ragione di una enciclopedia compilata oggi, meno che come guida di notizie pratiche, ossia che tradisce la propria natura e manca al proprio scopo. Oggi non c’è possibilità di enciclopedia».
La sua Nuova Enciclopedia non può quindi essere che il rovesciamento, la parodizzazione di una qualsivoglia enciclopedia di base: un irriverente paradosso che deve portare allo scoperto la reale fisionomia di una civiltà giunta a quel punto di saggezza disperata in cui deve riconoscere che l’unica possibilità è di disperdersi nei più divergenti meandri, senza fingere una impossibile unità.
È di fatto la lezione che presiede a Sorte dell’Europa, ancora una raccolta di scritti, cronologicamente ordinati, dei primi anni Quaranta la cui prefazione recita: «Raccolgo in questo libretto gli scritti di carattere politico da me pubblicati tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943, ossia quando in Italia si ricominciò a poter scrivere anche di cose politiche, e dal 4 giugno 1944 alla fine di questo medesimo anno. […]. Mi sarebbe stato facile fondere assieme questi vari scritti e dare all’avvenuta fusione l’apparenza anche esteriore dell’unità; ma alla forma aristotelica dell’unità di tempo ho preferito la libertà di tempo e spazio che Shakespeare – e il cinematografo – danno alle tragedie, ai drammi, alle commedie e alle farse della vita. Del resto c’è del “fascismo” nell’unità aristotelica […] e c’è del democratismo invece, c’è il senso felice della libertà nella forma “a variazioni sceniche” di Shakespeare».
Savinio persegue in questi suoi scritti una idea di Europa non identificabile in uno spazio geograficamente definito, in sintonia con il lemma Europa di Nuova Enciclopedia: «Non morrà lo spirito europeo, se sarà distrutto il territorio chiamato Europa. Lo spirito europeo non è chiuso dentro il circuito geografico chiamato Europa. Vivo è lo spirito europeo, e dunque mobile. E ovunque è arrivato e si è fermato l’uomo europeo. Ha un suo movimento da oriente a occidente. Determinato da motivi psichici. Spinto da simpatie, respinto da antipatie. Guarda a occidente. Per simpatia della luce. È attirato dal sole che tramonta. Si muove nella direzione del sole. Per tenere dietro al sole. Per non perderne la luce. Suo carattere profondo è l’occidentalismo».
Quindi la domanda: «Sarà mai felice l’Europa? Sarà mai ‘tutta’ europea? Un lavoro sottile e costante compie l’Europa per salvarsi dal non-europeo che continuamente le s’infiltra dentro e la inquina», dove è evidente la pressione esercitata dall’attualità che rende legittimo il dubbio sulla concreta possibilità di salvaguardare stabilmente il continente chiamato Europa da derive totalitarie e quindi pressante il richiamo alle responsabilità dei singoli.
Vengono alla mente i versi che Montale scrive in quegli stessi primi anni Quaranta: «Da poco – recita il passaggio conclusivo di Primavera hitleriana – sul corso è passato a volo un messo infernale / tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso / e pavesato di croci a uncino l’ha preso e inghiottito, / si sono chiuse le vetrine, povere / e inoffensive benché armate anch’esse / di cannoni e giocattoli di guerra […] e l’acqua seguita a rodere / le sponde e più nessuno è incolpevole».[3]
Non è certo casuale che Giacomo Debenedetti scelga un disegno di Savinio per illustrare la copertina del suo 16 Ottobre 1943, apparso nella Collana Le Silerchie del Saggiatore, folgorante racconto testimonianza della deportazione degli ebrei romani ordinata dal generale Kappler.
La consapevolezza della colpa deve agire in funzione della lucidità dello sguardo, della veloce articolazione del pensiero. È questa la sfida che Savinio raccoglie dall’attualità. Netta la sua sottolineatura della antitesi europeismo / totalitarismo: «Totalitarismo è organizzazione di vita non europea. Prima disindividualizza l’uomo e lo svuota, poi lo accende mediante potenti e continue irradiazioni di assurdo e di guerra. In Europa il Totalitarismo è un mostro. Può nascere in Europa, perché mostri nascono anche in Europa. Ma l’Europa lo distrugge. Ogni Totalitarismo in Europa è destinato a perire».[4]
È ferma persuasione di Savinio che funzione essenziale dell’Europa, in quanto luogo mentale, atopìa, è richiamare alla necessità di analizzare e distinguere: «Lo spirito europeo odia il grumo. Qualunque grumo si formasse in Europa, è destinato a sciogliersi sotto questa operante antipatia. […]. Lo spirito europeo, che nella sua funzione più sottile, più profonda, più ‘europea’, divide, separa, disgrega, compie opera salutare. […].
Ogni tappa dell’europeismo nel suo cammino da oriente a occidente, è, per la durata della tappa, il capo dell’Estremo Occidente. Estremo Occidente furono a turno la Grecia, l’Italia, la Francia, l’Inghilterra. Come se ciascuna tappa dell’europeismo non consentisse nulla di più ‘occidentale’. Come se ciascuna tappa dell’europeismo non tollerasse nulla tra sé e l’orizzonte nel quale il sole tramonta. Come se ciascuna tappa dell’europeismo avesse essa sola il diritto di dare ogni sera l’estremo saluto al sole. […]. L’europeismo più puro è la Grecia presocratica. Condizione più europea dell’Europa».[5]
L’ascendenza di Nietzsche è riconoscibilissima in questa difesa del pensiero presocratico ed è senza dubbio sorprendente la consonanza della lettura di Savinio con la recente rivisitazione dell’opera del filosofo tedesco.
Si ripercorra il saggio di Massimo Cacciari, Geo-Filosofia dell’Europa, laddove sono richiamate le motivazioni per cui la sede dell’Europa non è identificabile con i suoi confini geografici: «La sua ‘sede’ è sempre apparsa come qualcosa da raggiungere, e i suoi diversi assetti, momenti, passaggi. O congetture, appunto, di una patria assente. L’Europa ha saputo anche continuare ad essere congettura – e in ciò ha saputo custodire, forse, la possibilità di una sua conversio, non solo infinitamente più radicale, ma anche di natura affatto diversa, rispetto a quelle che si predicano su base etica o etico-politica o dogmatico-religiosa». Cacciari sottolinea quindi la necessità per l’Europa di riconoscere il proprio stesso occidente, di pensarsi, piuttosto che costruttrice di utopie, come atopìa: «Assurdo non-luogo, dove la più violenta espressione della volontà di potenza confligge in sé, implode, si dà come noluntas – e da questa stàsis interiore risale alla visione chiara del distinto, alla meraviglia per la singolarità di ogni forma».[6]
Si direbbe che questa sia anche la linea di pensiero in cui, pur con tutta l’ambiguità, ironia e autoironia di un libertino del pensiero, si sia mosso Savinio. Si ripercorra ancora il lemma Germanesimo, che compare due volte di seguito in Nuova Enciclopedia, conservando identico l’incipit: “Il 12 settembre 1943”. Si tratta di fatto di un lungo racconto-saggio articolato in due capitoli in cui Savinio procede con andare zigzagante, per nulla rispettoso delle attese del lettore, intorno al concetto di occidente, con funamboleschi passaggi dall’attualità politica agli eventi storici più lontani, senza evitare intromissioni del privato e tuttavia con rilievi estremamente lucidi proprio laddove sembra più superficiale e distratto. Esemplari in tal senso le motivazioni con cui identifica europeismo e occidentalismo: «Tanto più atta è una terra all’europeismo, quanto più essa è di carattere occidentale, ossia quanto più dà a credere che di là da essi non c’è più né paesi culti né vita, e nient’altro avviene se non il tramonto del sole: questa avventura maggiore della umana giornata. […]. Sostiamo col pensiero sul tramonto del sole. Quando il sole tramonta gli altri animali entrano nel sonno, l’uomo solo si sveglia e questo è il suo risveglio alla sua giornata interiore. È il momento più importante per la vita dell’uomo, il momento più altamente umano, il momento più importante per l’umanità, per la vita civile. […]. È il tramonto che suggerisce all’uomo la necessità ‘morale’ del lavoro e che egli deve farsi quaggiù una vita sempre più alta […]. È nel punto in cui il sole tramonta che l’uomo sente il grande rammarico della vita, e pensa di rendere la vita duratura di là dal tramonto del sole, di là dalla morte, di là da se stesso. […] il tramonto insegna all’uomo che egli stesso può diventare Dio». L’originalità dell’europeismo‘ dunque risiede nella sua qualità di civiltà di carattere non teocratico ma essenzialmente umano. «L’europeismo – recita il lemma saviniano – è una forma di civiltà prettamente umana, e così prettamente umana che ogni intromissione del divino nell’europeismo, ogni tentativo di teocrazia in Europa è un ostacolo all’europeismo, un arresto della civiltà».
La lezione di Nietzsche si intreccia con quella dei filosofi del dubbio sistematico: Montaigne in primo luogo.
Ferma persuasione di Savinio è che soltanto nell’Europa «torturata dai dubbi più di tutte / le spose invecchiate», come ricorda il canto dello Zarathustra nietzschiano, possa prendere forma quell’insieme dialogico verso cui ‘guarda’ il suo enciclopedismo ‘nuovo’ e che trama la sua riflessione politica, lontano da ogni velleità ‘eurocentrica’, che varrebbe sostanzialmente a ricadere in una logica di tipo deduttivo: è nel respingere con fermezza ogni reductio ad unun che l’Europa può, secondo Savinio, svolgere pienamente il suo ruolo.
Recita la chiusura di un suo saggio pubblicato da Garzanti nel 1947 in un’antologia di scritti di autori vari, a cura di Dino Terra, con il titolo Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea: «Panta rei disse un uomo della “parentesi” e con venticinque secoli di anticipo Eraclito ci dà l’immagine del ‘nostro’ universo.
Eliminare d’in mezzo a questa ‘orizzontalità’ tutto quanto è verticale e ostacola il libero fluire della vita […]. Non dico di gettare il popolo nell’anarchia, levargli guida e direzione e i tutori dell’ordine. Ma togliere ai reggitori e amministratori della cosa pubblica la posizione di centro, ogni posizione che imiti la posizione e il potere centripeto di un dio, la funzione accentratrice, e disporli in fila, in “ordine sparso”, ai margini della vita fluente.
Come i segnalinee nelle partite di calcio.
Che è il solo modo di sciogliere i nodi della vita: il particolarismo e l’isolazionismo nazionalistico. Dare ai popoli un cammino rettilineo e libero […]. E tutti, senza illusioni né mete false, cammineranno il cammino di una comune sorte».[7] E in Difesa dell’intelligenza, uno scritto del 30 agosto 1943, Savinio insiste sulla necessità di rispettare in ogni occasione il libero gioco del pensiero: «Il danno che noi soffriamo è tutto qui: nella mancanza di uomini di pensiero […]. Abbiamo traversato un’orgia di energia, che per maggior effetto era chiamata dinamismo, e i risultati li vediamo. […]. È nei momenti “critici” che l’intelligenza è soprattutto necessaria, perché l’intelligenza ha la divina facoltà di sciogliere qualunque nodo». Sulla stessa lunghezza d’onda, a chiusura di Pompierismo, del 15 luglio 1944: «[…] bisogna liberarsi anzitutto del concetto tolemaico del mondo – che è concetto tolemaico e imperialista – liberarsi del concetto tolemaico in tutte le sue forme (che son infinite) ed entrare nel concetto copernicano del mondo, ossia del concetto democratico. Passare dal concetto verticale del mondo al concetto orizzontale. Passare dal concetto accentratore al concetto espansivo».[8] E nel passaggio conclusivo dell’articolo che dà il titolo al volume Savinio torna a sottolineare che il ruolo dell’Europa, «in quanto Europa cioè in quanto fulcro di quelle condizioni che tutte assieme compongono le qualità dell’uomo ‘umano’», sta nel testimoniare che l’equilibrio e la stabilità risiedono nella pluralità e varietà delle idee, nella consapevolezza che non può darsi un centro né un télos trascendente.
L’appello allora è a quegli spiriti eminentemente europei, gli interrogantes, per i quali non può darsi stabile dimora dal momento che essi in-sistono nell’interrogare soltanto.
Può l’Europa diventare il luogo di questa eterna inquisitio?
In odio all’amalgama, fermo restando l’amore del distinto per il distinto, è sempre stata questa – risponde Savinio – la vera sorte dell’Europa, la sua chance, il suo destino.
[1] SAVINIO, Alberto, Nuova Enciclopedia, Milano, Adelphi, 1977.
[2] SAVINIO, Alberto, Sorte dell’Europa, Milano, Adelphi, 1977, p. 77.
[3] MONTALE, Eugenio, La bufera e altro in L’opera in versi, a c. di R. Bettarini e G. Contini, Torino, Einaudi, 1980, p. 248.
[4] SAVINIO, Alberto, Nuova Enciclopedia, op. cit., p. 150.
[5] Ivi, p. 146.
[6] CACCIARI, Massimo. Geo-Filosofia dell’Europa, Milano, Adelphi, 1989.
[7] Questo saggio, con il titolo Stato, è stato ripreso come epilogo di Sorte dell’Europa nella edizione Adelphi 1977.
[8] SAVINIO, Alberto, Sorte dell’Europa, op. cit., pp. 35, 36.