(in “Studi comparatistici”, n° 7)
Max Klinger nel percorso artistico di Alberto Savinio e Giorgio de Chirico
Citando da “Il Corriere della sera” del 20 febbraio 2014: “Klinger, in occasione della XIV Secessione viennese per la quale creò il celebre monumento a Beethoven, quando Klimt creò invece il celebre “fregio di Beethoven”, scrisse un trattato teorico in lode del bianco e nero. “Griffelkunst” (l’arte dello stilo), questo il titolo del saggio, analizza tutte le tecniche su carta che non fanno ricorso alla tavolozza. La pittura e il colore, secondo Klinger, esaltano il regno del visibile, la bellezza, la vita, la luce, lo splendore della natura. Il disegno, invece, dà forma agli aspetti oscuri dell’esistenza, ai suoi misteri e agli incubi interiori.
Il disegnatore, infatti, non riproduce la realtà vista dall’occhio, ma quella della fantasia, che non esiste se non nella propria testa. Ecco perché i lavori con lo stilo sono per lo più visioni notturne o allegoriche come il sogno raccontato nel ciclo di dieci disegni (tre anni dopo eseguiti anche a incisione) intitolato “Fantasie di un guanto trovato, dedicate alla donna che lo perse”.
Si tratta di una narrazione illogica e surreale del ritrovamento di un guanto femminile da parte di Klinger su una pista di pattinaggio a Berlino; nel terzo foglio il protagonista si addestra nel regno dei sogni e il guanto, di volta in volta, esageratamente grande, attivo o passivo, diventa il protagonista di avventurosi episodi notturni che terminano al mattino, quando il guanto viene ritrovato su un tavolino”.
Savinio e de Chirico sono entrambi grandi ammiratori di Klinger (1857-1920), disegnatore, pittore, scultore e incisore tra i grandissimi.
Defilati rispetto alle diverse avanguardie primonovecentesche, del cui variegato inventario di suggestioni, forme, tecniche, sono comunque osservatori non distratti, Giorgio de Chirico e il più giovane fratello Andrea, nom de plume Alberto Savinio, pongono in essere nel primo decennio del secolo scorso una ricerca che testimonia un inedito rapporto tra realtà e invenzione, immaginazione e logica.
Decisiva la memoria dell’infanzia trascorsa in Grecia, tra Volos, il porto della Tessaglia, dove nel 1888 è nato Giorgio, e Atene, dove tre anni dopo è nato Andrea, all’inizio musicista, poi scrittore e dal 1926 anche pittore.
Lo spazio urbano, l’architettura della città, è il tema intorno a cui si snoda il percorso artistico dei due fratelli, in una totale condivisione di idee, almeno nella fase iniziale tra il 1906, quando da Atene si trasferiscono a Monaco di Baviera, e i primi anni Venti.
Rimando d’obbligo la polis greca: «Atene ̶ scrive Aldo Rossi in L’Architettura della città ̶ è la prima idea chiara della scienza dei fatti urbani; essa è il passaggio dalla natura alla cultura, e questo passaggio, all’interno stesso dei fatti urbani, ci è offerto dal mito. Quando il mito diventa un fatto concreto nel tempio, emerge già dal rapporto con la natura il principio logico della città; e questa diviene l’esperienza che si trasmette.
Così la memoria della città percorre il suo cammino a ritroso fino alla Grecia; qui i fatti urbani coincidono con lo sviluppo del pensiero e l’immaginazione diventa storia ed esperienza. La città concreta che noi analizziamo ha così la sua origine in Grecia; se Roma ha saputo fornire dei principi generali sull’urbanesimo e quindi costruire città secondo schemi logici in tutto il mondo romano, è in Grecia che rileviamo i principi fondamentali della costituzione della città. Ed è anche fondamentalmente un tipo di bellezza urbana, di architettura della città, che diventa un’esperienza costante della nostra esperienza della città; la città romana, araba, greca e quella moderna si avvicinano a questo valore coscientemente ma solo a volte ne sfiorano la bellezza. Tutto ciò che vi è di collettivo e di individuale nel tema della città, la sua stessa intenzionalità estetica, sono fissate nella città greca in condizioni che non possono mai più tornare»[1].
Entrano nella riflessione di Aldo Rossi considerazioni di ordine sociologico e di economia politica: «In definitiva Atene ci offre l’insegnamento di una città diversa da quelle che abbiamo visto in Egitto o sulle vallate dell’Eufrate e del Tigri, nelle quali gli unici elementi formativi erano il tempio della divinità o il palazzo del sovrano. Qui invece, oltre i templi – pur essi diversi da quelli delle civiltà precedenti – troviamo come elementi generatori della città le sedi degli organi di una vita politica libera (boulé, ecclesia, aeropago) e gli edifici connessi con esigenze tipicamente sociali (ginnasi, teatro, stadio, Odeon). Una città come Atene corrisponde a uno stadio superiore della vita umana associata». [2]
È da questa idea di città, dalla polis ateniese del V° secolo A.C. stretta intorno ai suoi architetti, scultori, poeti e al suo teatro, che discende la peculiarità dell’immaginario urbano di Giorgio de Chirico e di Alberto Savinio, la singolare modalità in cui il mito classico, trasformandosi nella metafora di una vicenda spirituale, ritorna vivo, la favola acquista un significato nuovo diventando il vero motore del processo creativo.[3]
Né Giorgio né il più giovane fratello sono avari di confessioni esplicite circa la decisività, per il loro singolare percorso creativo, dell’essere nati in Grecia ed aver trascorso lì la propria infanzia.
Si ripercorra il racconto saviniano, Alla città della mia infanzia dico, nel volume del 1943 Casa “La Vita”: «Ben fortunato mi reputo di essersi formata laggiù la mia ragione, fra i templi portatili, le colonne che girano assieme col girar del sole, le statue animate di serena magia, quando brillanti nella compagnia degli alberi, quando levate oscure di contro l’amorosissimo cielo.
Non aveva segreti per me la mia città. Fosse o lieta o alcuna ombra la oscurasse, ero abituato a compatire i suoi umori, a spartire i suoi sentimenti più celati, a seguirne le riputazioni tanto sulla faccia che guardava il mare, quanto su quella che guardava la montagna.
Era un affetto il mio ben più intimo e geloso, di quello che le cose inanimate o credute tali sogliono ispirare: misteriosa mistione di amore e di dubbio, insaziabile bisogno di fedeltà.
Gli dei la visitavano sovente, di solito al mattino. Mercurio piombava dal cielo, scintillante come uno scarabeo nella sua corazza d’oro, posava un piede alato sulle case per riprendere lo slancio, rimbalzava in cielo»[4].
Nel suo inguaribile nomadismo è capitato a Savinio di sostare in molte città nelle quali tuttavia ha sempre cercato più o meno consapevolmente la dolce città della sua infanzia: «Altre città nelle quali ho disperso poi anni e speranze, mi girano nella memoria in un nebbioso nembo ove fantasmi di pietra emergono da una bassa caligine che la negra folla percorre con lumi e campanelli; convogli di uomini e animali, macchine semoventi salgono in continuo contro le facciate lunghe delle case raggianti come opifici, e di là precipitano in altri canali tenebrosi onde per folti labirinti si spandono verso il cuore lontano e i deserti palazzi del governatore; vasti cantieri che la pietra ricopre e stringe il ferro, odorosi di vapore, di carbone minerale e di olio combusto, tra le cui ruote si agita e tumultua un iroso popolo sconvolto dalle passioni; fermi come navi ancorate sui loro confini lontani, in quella zona buia ove i cani si aggirano assieme con gli assassini, e fuma intorno la terra squamosa e infruttifera che circonda le capitali.
Queste città senza grazia né ricordi, per le quali e la vita vo consumando e con stanchezza sempre più grave trasportandomi dall’una all’altra nella continua ricerca di una sede confortevole, non sanno mostrarmi se non aspetti parziali e fuggevoli, vani come ricordi di paesi sognati.
Anche su città più riposate e tranquille, dietro piazze pezzate di praticelli pettinati e civili, di là da terrazzi popolati di statue e palmizi, sempre mi riappare nel fondo – porto di continui ritorni, golfo felice dei miei primi anni – la città della mia infanzia. Sorge dalla mia nostalgia inestinguibile, si leva come lo spettro dolente e crucciato della sola felicità che la vita mi ha largito. Allora io che cieco da te mi sono allontanato per sempre, tra le voci incomprensibili che mi suonano intorno e i volti senza sguardo, mando disperato a te il mio saluto di marinaio»[5].
Una assai trepida testimonianza in questa direzione offriva già il racconto, Salute a Mentore, nel volume del 1937 Tragedia dell’infanzia: «Andavo consumando l’infanzia in un borgo marittimo della Tessaglia, in quella stessa Jolco che vide salpare la prima nave.
L’eco dei canti e degli augurii che salutarono quell’antichissima navigazione, risuona ancora nel vento che si leva a meriggio, poi di sera si spegne quando il vento ripiega.
Giorno per giorno si ripete quell’armonioso ritorno che la gente del posto chiama bati.
Quando domandavo a Diamandi chi era Giasone, Orfeo, i Dioscuri, Linceo, quegli rispondeva:
Sono eroi che si aggirano da queste parti, nelle foreste, in riva al mare, lungo le carraie diffuse nella valle e abbarbicate su per la montagna.
La montagna dominava il borgo come una madre potente e protettrice.
Finito di parlare, Diamandi ricominciava a fischiettare piano, stringendo la lingua fra i denti e mirando il cielo nel quale vogava lentamente la vela tessuta da Medea.
Benché quell’uomo singolare che aveva per me le oscure dolcezze di un padre non si pronunciasse più di così, la misteriosa presenza degli eroi sulla terra, il loro grave aggirarsi in mezzo a noi mi si chiarivano ugualmente, mi si manifestavano come fatti reali e patenti»[6].
Giorgio avrebbe senz’altro sottoscritto anche se i suoi rapporti con il fratello si sono andati progressivamente deteriorando fino a una totale rottura di cui è difficile individuare le ragioni.
Qualche indizio in questa direzione può cogliersi in Memorie della mia vita laddove Giorgio traccia uno svelto profilo del fratello: «A Parigi, tra il 1912 ed il 1915, impressionava fortemente Guillaume Apollinaire e creava tutta una nuova emozione artistica che io concretizzavo in quel periodo della mia pittura da me stesso chiamato: pittura metafisica e realismo magico. (…).
Mio fratello era anche pittore e musicista; il suo valore più grande fu quello di scrittore e di poeta»[7].
E con ostentato compiacimento indugia nel richiamare momenti anche minori della produzione letteraria di Savinio mentre trascorre a volo d’uccello sulla sua opera pittorica nel cui ambito si limita a elogiare i ritratti: «Come pittore, benché meno potente e profondo che come scrittore, ha pure lasciato opere straordinarie, soprattutto una serie di ritratti, tanto impressionanti per assomiglianza di dentro e di fuori. Alcuni di quei ritratti, e soprattutto il ritratto della madre, possono stare, per potenza espressiva e plastica, al livello di alcune delle migliori opere di Dürer»[8].
Si direbbe che dietro i riconoscimenti fin troppo esibiti della ritrattistica si celi una inconfessabile gelosia per la produzione pittorica di cui non gli sfugge la singolarità. Sta di fatto che se all’altezza degli anni Dieci il ‘pictor optimus’ non esita a sottolineare la rilevanza del contributo del fratello, allora soltanto musicista e scrittore, alla genesi stessa della pittura ‘metafisica’, a partire dai primi anni Venti pone in essere una sorta di progressivo ritiro delle ‘credenziali’.
In questa direzione una indiretta conferma è leggibile nella messa a confronto di due dipinti dallo stesso titolo, La partenza degli Argonauti, rispettivamente del 1909 e del 1920. In entrambi i dipinti Giorgio mette in scena, sotto spoglie mitologiche, una vicenda dai risvolti innegabilmente autobiografici: il viaggio dei Dioscuri, partiti sulla nave Argo dalla baia di Volos alla conquista del vello d’oro, propiziato dal canto di Orfeo, è il viaggio che egli stesso ha iniziato con il fratello nel 1906 alla scoperta di un’arte nuova.
E tuttavia se la ‘messinscena’ offerta dal dipinto del 1909 non lascia adito a dubbi sul ruolo ‘guida’ che Giorgio riconosce al fratello ̶ al centro del quadro una nave, al largo, nella baia di Volos, attende la spinta dei venti; sulla riva due personaggi hanno appena immolato vittime alla statua di Atena. Il personaggio con in mano una lira, nella doppia veste di uno dei Dioscuri e di Orfeo, è Savinio, propiziatore del viaggio con le sue intuizioni poetico-musicali ̶ nel dipinto del 1920 scompare il richiamo a Savinio / Orfeo: uno dei Dioscuri, raffigurato con in mano un’asta e in una lieve torsione del busto, rimanda esplicitamente al dipinto di Klinger del 1887, Il giudizio di Paride.
Si direbbe che Giorgio, pur continuando a guardare a Savinio come a un referente, a livello teorico, importante, voglia ora riconoscere un ruolo decisivo per la propria vicenda artistica al grande incisore e pittore e scultore tedesco, estimatore di musicisti e filosofi, ai quali guarda come a sacerdoti di un’ideale religione dell’arte, a cominciare da Brahms, al quale dedica un ciclo di acqueforti Brahmsphantasie Opus XII, a Beethoven, per il quale realizza la celebre scultura in marmi diversi, bronzo e avorio per la Wiener Sezession del 1902, a Schopenhauer, a Wagner e a Nietzsche.
Senza dubbio all’opera di Klinger, espressione di un altrove popolato di voci d’ogni età, dove il mito classico si scontra con la scioccante perentorietà di incursioni nella vita delle metropoli moderne, dove l’enigma si identifica ora in un guanto gigantesco, ora in un pianoforte suonato in riva al mare, i due fratelli si avvicinano già negli anni della formazione a Monaco di Baviera, inconsapevole mediatore Max Reger, il musicista innamorato della pittura, che impartisce lezioni di composizione a Savinio, ‘assistito’ da Giorgio, in qualità di ‘interprete’.
Nell’ambito dei cicli grafici di Klinger, sospesi tra visione e allucinazione, a suscitare in entrambi i fratelli un forte impatto emotivo è in particolare il sogno raccontato nel ciclo Parafrasi sul ritrovamento di un guanto.
L’insieme dei dieci fogli presenta un carattere narrativo: all’inizio un artista raccoglie su una pista di pattinaggio il guanto perduto da una giovane donna. Subentra quindi una realtà tra la veglia e il sonno: il guanto diventa l’unico protagonista di un’avventura notturna che termina al mattino, quando l’oggetto ritrova la pace su un tavolino.
Questo ciclo – il rilievo è di Andreas Stolzenburg – precorre sia la psicoanalisi sia motivi surrealisti, come il collage, l’inversione dei rapporti dimensionali e l’attribuzione di una vita propria agli oggetti.[9]
Nel catalogo ragionato della grafica klingeriana, Singer ricorda come l’autore gli avesse una volta confidato che per lui il momento più bello del giorno era il mattino, tra sonno e veglia. Era allora che gli venivano immagini, pensieri, e agli occhi della mente apparivano singoli motivi artistici e composizioni, con una precisione che sconfinava nell’ammirazione.[10]
Se si pensa ai racconti saviniani degli anni Dieci e ai coevi dipinti di Giorgio nei quali torna insistente la figura del guanto, Enigma della fatalità, Nature morte, Torino a primavera, Il destino del poeta e particolarmente Il canto d’amore, dominato dalla figura centrale del grande guanto rosso appeso alla parete, si ha la conferma dell’incisività con cui agisce in entrambi i fratelli l’ascendente di Max Klinger.
Nel caso di Savinio l’immagine del guanto è centrale nel racconto del 1916, L’orazione sul tetto della casa: «Poco fa, come fui rientrato nella camera venduta, mi tolsi un guanto e l’inchiodai alla parete. Il guanto penzoloni conserva la forma della mano vuota: io guardo in quel cadavere di mano il mio destino, che non è più di una cotenna sgonfia»[11].
Chiarissime tracce dell’autorevolezza della lezione di Klinger sono presenti anche successivamente nel percorso artistico di Savinio: lo stesso romanzo del 1926, Angelica o la notte di maggio, per la modalità in cui è ripreso il mito di Amore e Psiche, ne offre persuasiva conferma.
Sorprende quindi che nella sua intensa attività di critico Savinio non fermi mai l’attenzione esplicitamente sull’opera del grande artista tedesco, al contrario di Giorgio il quale sceglie di rendere esplicite le ragioni dell’autorevole ruolo del maestro di Lipsia nella stessa genesi della sua pittura.
Argomentatissimo il saggio che gli dedica nel 1920, in occasione della morte. Recita il movimento di avvio: «Quando si guarda l’opera di Max Klinger, specie nelle sue acqueforti, si è subito colpiti dal modo bizzarro e fantastico con cui egli rappresenta il mito greco. Quello spirito che contengono le numerose composizioni che egli ha inciso sorprende per il fatto che prima d’averlo veduto non se ne sospettava l’esistenza nell’opera dell’arte greca, mentre dopo se ne trova in questa l’origine. Ciò dimostra la genialità dell’opera klingeriana che, per quanto altamente fantastica e ricca d’immagini le quali, a prima fronte, ed a persone poco scaltrite nelle sottigliezze metafisiche, possono sembrare paradossali ed insensate, si basa invece sempre sul fondamento d’una chiara realtà, potentemente sentita, e non erra mai in deliri e vaneggiamenti oscuri.
Si guardi quell’acquaforte della serie Brahmsphantasie, che rappresenta il Trasporto di Prometeo. Nulla in quest’opera è nuvoloso e nebbiosamente fantastico. Sopra un pezzo di mare, coperto d’una larga rete di schiume, Prometeo, sorretto da Mercurio e dall’aquila di Giove, vien portato via di peso, come un ferito o un malato. Nel gruppo è palese tutto lo sforzo reale di quei tre esseri. Il movimento delle ali dell’aquila, costretta a volare contro vento e reggendo un forte peso, è espresso con straordinario acume d’osservazione. Così pure Mercurio che appare come un fantasma volante; per non lasciarsi rapire dal vento il pètaso ne ha pigliato tra i denti il sottogola e sorregge sotto le ginocchia Prometeo che s’aggrappa disperatamente all’aquila, mentre le foglie della corona d’alloro, donatagli dagli uomini in compenso del ratto del fuoco divino, cadono a una a una …».[12]
Un gioco di specchi trama la riflessione di Giorgio, talvolta esibito come laddove è sottolineata la particolare stimmung dei paesaggi di Klinger: «Contengono un profondo sentimento lirico e filosofico, affine a quel sentimento che si sprigiona dal pensiero di alcuni filosofi greci dell’Asia Minore e di alcuni pensatori e poeti della Magna Grecia. Sentimento di serenità dolcissima e mediterranea; apparizione di figure felici, coricate in riva al mare, all’ombra dei pini; luce di sole che non brucia. Un appena percettibile senso di noia che alita ovunque: sulle acque, sulla terra, sulle piante, sugli uomini, sugli animali. Sentimento profondo di orizzonte lontano, ma non pauroso; senso nostalgico della quiete che segue lo sforzo d’un superamento».[13]
E subito dopo Giorgio chiama in campo Böklin per sottolineare: «Però Klinger, spirito più complicato, sebbene meno classico di Böklin, riunisce spesso in una stessa composizione scene di vita contemporanea a visioni mitiche, ottenendo così una realtà di sogno altamente impressionante».[14]
E a proposito dell’acquaforte Accordo: «Sopra un’impalcatura eretta sul mare, coperto di correnti e di schiuma, un pianista nerovestito siede presso un pianoforte su cui suona, come se si trovasse nel tepore e la tranquillità di una sala da concerto. Presso lui sta seduta una donna. Le pieghe d’una tenda appesa dietro quelle due persone nascondono l’orizzonte misterioso. Sotto, nell’acqua, un tritone regge a fatica un’arpa enorme che il vento gli sbatte contro la fronte: delle donne marine suonano quell’arpa.
Sul mare una barca da corsa, una specie di cutter, piegato dall’impeto del vento, voga veloce verso un luogo misterioso; un pezzo di mare scuro e tranquillo, chiuso come una vasca da rocce altissime, isolate dai venti e dalle tempeste, e in fondo al quale si vedono biancheggiare i marmi d’una villa.
A rendere ancora più reale questa scena sì paradossalmente lirica, Klinger ha messo presso il pianista una scaletta di legno, simile a quelle delle cabine negli stabilimenti balneari, e di cui si vedono i primi gradini che scendono sull’acqua. L’”idea” di questa scaletta è d’una straordinaria genialità».[15]
E subito dopo Giorgio confessa: «Riandando le memorie della mia infanzia, ricordo che le scalette delle cabine balneari mi turbavano sempre e mi davano un gran senso di sgomento. Quei pochi gradini di legno coperti di alghe e di muffa e immersi a meno d’un metro sott’acqua mi sembrava dovessero scendere per leghe e leghe fino al cuore delle tenebre oceaniche. Rivissi la stessa emozione quando vidi quest’acquaforte di Klinger. In essa però la scaletta ha pure un altro significato: unisce la scena reale a quella irreale e questa, essendo espressa con gli stessi mezzi di quella, e non annebbiata e confusa, come usarono certi pittori in composizioni contenenti parti irreali (si pensi al rêve di Detaille), pare che il pianista, lasciato lo strumento, possa scendere nell’acqua o che gli esseri marini, salita la scaletta, possano venire a sedersi sull’impalcatura.
È un sogno e nello stesso tempo è una realtà; a chi la guarda sembra scena già vista, senza poter ricordare quando né dove».[16]
Cercando quindi un possibile parallelismo con un’opera letteraria, avrebbe potuto citare uno dei primi racconti saviniani ma Giorgio guarda altrove: «Come profondità e senso metafisico questa visione di Klinger si potrebbe paragonare in letteratura a quel racconto che fa Thomas De Quincey d’un suo stranissimo sogno».[17]
L’attenzione di Giorgio si sposta quindi dall’opera grafica di Klinger a quella pittorica fermando in primo luogo l’attenzione su La passeggiata il cui ascendente sulle sue Piazze d’Italia è di tutta evidenza: «Davanti a un muro basso e lungo fatto di mattonelle, si vedono alcuni uomini che passeggiano al sole e le loro ombre si profilano sulla terra e salgono sul muro. L’orizzonte è vuoto. Quel muro sembra segni i limiti del mondo; sembra come se dietro a esso debba esserci il nulla. Il senso di noia e d’infinito sgomento, quel che d’interrogativo nasce dalla linea dell’orizzonte, s’infonde in tutto il quadro: nelle figure, nella terra, nelle ombre, nella luce».[18]
E il gioco di specchi prosegue nella lettura dell’altro dipinto, La Crocifissione: «In quest’opera egli ha cercato di sfruttare un certo aspetto bizzarro e metafisico che assumono gli attori sulla scena, specie nei vecchi melodrammi e in certi momenti di simmetrica disposizione in cui si vedono i personaggi principali nel centro della scena e ai lati il coro e i personaggi secondari.
Tutto il quadro è teatrale ma non nel senso che si dà comunemente a questa parola. Infatti mentre in alcuni artisti la teatralità dell’opera è un aspetto che sottentra nel quadro senza che intervenga la volontà del pittore, e pertanto il valore estetico e spirituale dell’opera viene a essere assai diminuito, in questa pittura di Klinger l’aspetto teatrale è voluto e cosciente, poiché di esso non è stato preso che il lato metafisico cui ho già accennato, la qual cosa, anziché menomare, accresce la potenza spirituale dell’opera.
Dietro i personaggi del quadro, come uno scenario calato nel fondo, si vede il panorama delle case e delle torri di Gerusalemme. I personaggi sono tutti disposti quasi sullo stesso piano, sopra una specie di terrazzo che sembra l’altipiano d’ un monte, coperto di lastre e destinato ai supplizi.
I tre crocifissi sono attaccati a croci basse con i piedi che quasi toccano la terra. Cristo, visto di profilo, non appare come un agonizzante ma come un uomo che vive e soffre, simbolo dell’uomo straordinario e del suo destino. Davanti al Cristo sorge una Maddalena dolorante e, discosta dal gruppo, la madre, severa, spettrale, statuaria. A sinistra sorgono figure di spettatori simili a strane apparizioni di lottatori da fiera e di comparse da melodramma. Completa la composizione un gruppo di rabbini e di scrivani ebrei».[19]
Sorprende che Giorgio non dedichi attenzione alcuna al dipinto del 1897, Cristo nell’Olimpo, in cui Klinger cerca una conciliazione tra spiritualità pagana e cristiana. Si configura infatti qui, già nel titolo, una modalità di affrontare il tema religioso che può riconoscersi in dipinti di Giorgio quali Deposizione del 1940, della collezione Astaldi e ora nella galleria di Arte Moderna di Udine, e nel dipinto del 1947, Alter Christus, conservato nella abitazione romana di Piazza di Spagna fino alla morte dell’artista, quindi trasferito, per decisione della moglie Isabella Far, in uno spazio attiguo alla chiesa di San Francesco a Ripa in Trastevere.
Sulla stessa lunghezza d’onda dell’amato maestro di Lipsia, attento a ‘registrare’ le diverse voci della religiosità, Giorgio guarda alle figure storiche di Cristo e di Francesco per il loro carico di umana sofferenza.
Particolarmente attenta, anche se discutibile nell’impianto, la lettura di Alter Christus nell’ultimo capitolo del volume di Claudio Crescentini, Giorgio de Chirico. Un enigma velato: «Alter è appunto uno “scuro” San Francesco piangente, dal gesto umile e fragile. “Scuro” nel senso del colorito dell’epidermide, volto e mani, che de Chirico acquisisce dall’iconografia del volto del Santo di ritorno dalla Terra Santa.
Fiacco e ammalato, Francesco diviene, anche fisicamente, il pendant diagonale del Cristo sofferente caduto sul Golgota sotto il peso della croce.
L’immagine e la similitudine è forte, mediatica, e ci fa pensare ad una decisa, attiva religiosità di de Chirico: dall’iconologia cristologica, in qualche modo criptica ed ermetica degli anni Dieci, a quella più vistosa ma anche vissuta e netta della svolta francescana degli anni Quaranta».[20]
In realtà l’idea di una ‘svolta’ all’altezza degli anni Quaranta, come asserisce Crescentini secondo cui il dipinto del 1947, Alter Christus, sarebbe da leggere come testimonianza di una aperta adesione di Giorgio alla religione cattolica, non è suffragata da una adeguata documentazione.
È al contrario ragionevole ritenere che Giorgio si avvicini alla figura di Francesco di Assisi in direzione di una pittura in prospettiva mitica testimoniando ancora una volta l’autorevolezza della lezione di Max Klinger, il maestro degli anni giovani. [21]
E in questa ottica disvela di essere al contempo assai vicino a Savinio il quale, in quegli stessi anni Quaranta, oltre a lavorare alla sceneggiatura di un film sulla vicenda di San Francesco, pubblica sulla rivista romana “Il Mediterraneo” del 12 luglio 1940 un saggio in cui lo stesso titolo, L’Orfeo di Assisi, si direbbe in linea con la lezione del grande pittore tedesco.
[1] A. Rossi, L’architettura della città, Padova, Marsilio, 1966.
[2] Ivi.
[3] Si rinvia a R. Tordi, Il diadema di Toth, Roma, L’Ateneo, 1987 e AA.VV., Mistero dello sguardo. Studi per un profilo di Alberto Savinio, a cura di R. Tordi, Roma, Bulzoni, 1998
[4] A. Savinio, Casa “La Vita”, Milano, Adelphi, 1988, pp. 17/18
[5] Ivi, pp. 18/19
[6] A. Savinio, Tragedia dell’infanzia, Torino, Einaudi, 1978, p. 39
[7] G. de Chirico, Memorie della mia vita, Milano, Rizzoli, 1962, p.223.
[8] Ivi, p. 225. Assai diverso il giudizio di Giorgio nel 1925 quando esorta il fratello, che gli ha inviato alcuni suoi disegni e studi pittorici di cui si dichiara entusiasta, a raggiungerlo a Parigi e ne scrive alla madre: «I disegni di Bettì mi hanno molto impressionato. Sono cose destinate a un grande avvenire: Tra giorni le mostrerò a Guillaume» (il passaggio della lettera è in Daniela Fonti, A. Savinio, scritti sull’arte. Antologia in Alberto Savinio, a cura di Pia Vivarelli e Paolo Baldacci, Milano, Mazzotta, 2002).
[9] A. Stolzenburg, L’artista figurativo come poeta: la grafica di Max Klinger in Max Klinger, Catalogo della mostra in Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 17 marzo-16 giugno 1996, pp.137-167.
[10]H.W. Singer, Max Klinger Radierungen, Stiche und Steindrucke, Wissenschaftliches Verzeichnis, Berlin, 1909, p.X.
[11] A. Savinio, L’orazione sul tetto della casa, Hermaphrodito, Torino, Einaudi, 1974, p.233
[12] G. de Chirico, Max Klinger, Giorgio de Chirico. Scritti, a c. di Andrea Cortellessa, Milano, Bompiani, 2008, p.323
[13] Ivi, p.325. Analogamente laddove Giorgio scrive : «Klinger, per rendere la scena ancora più reale, mette il gruppo volante al livello dello spettatore, sicché, chi guarda, partecipa dell’emozione di quello strano volo», dove può cogliersi l’analogia con la sua stessa scelta, nelle celebri Piazze d’Italia, di porre le statue all’altezza dei rari passanti.
[14] Ivi.
[15]Ivi pp. 325-326
[16] Ivi p.326
[17] Ivi
[18] Ivi p.331
[19] Ivi p.330
[20] C. Crescentini, Giorgio de Chirico. L’enigma velato, Roma, Erreciemme, 2009, p.207
[21] G. de Chirico, Max Klinger, Giorgio de Chirico. Scritti, op. cit., p. 333. Non è del tutto trascurabile che nel 1919, nel dipinto di Giorgio, Autoritratto dell’artista come pittore, accanto alla mano dell’artista che regge un pennello, sia in tutta evidenza su un tavolino la sagoma vuota e leggermente rigonfia di un guanto e che l’explicit del suo saggio del 1920 reciti: «Klinger è stato l’artista moderno per eccellenza, Moderno non nel senso che oggi si dà a questa parola ma nel senso di uomo cosciente che sente l’eredità di secoli e secoli d’arte e di pensiero, che vede chiaramente nel passato, nel presente e in se stesso».
Non è al contempo illegittimo ipotizzare che il ‘pictor optimus’, secondo un costume diffuso tra gli artisti della classicità, nella figura rappresentata in un angolo della tela, di spalle rispetto alla scena e con il volto atteggiato a quella sofferenza estrema che fa di un uomo, di ogni uomo, l’Alter Christus, identificata con quella del santo di Assisi, abbia in realtà voluto si leggesse il suo autoritratto.